XXVI Domenica del Tempo ordinario (A)


ANNO A - 25 settembre 2011
XXVI Domenica del Tempo ordinario

Ez 18,25-28
Fil 2,1-11
Mt 21,28-32

PUBBLICI PECCATORI
ALLA MENSA DEL REGNO

Con la trilogia di parabole, che riprendono il tema profetico della vigna, Matteo conferisce alla sua narrazione un tono sempre più drammatico: dopo la parabola dei lavoratori che, pur andando nella vigna a ore diverse, ricevono uguale salario viene quella dei due figli che hanno nei confronti del lavoro richiesto loro dal padre atteggiamenti opposti e, infine, viene la tragica storia dei vignaioli omicidi. Chi ascoltava Gesù, come pure i cristiani della comunità di Matteo erano in grado di cogliere, dietro la metafora della vigna, il senso dell'alleanza di Dio con il suo popolo, ma anche di ricordare la tragica storia di infedeltà che l'ha scandita, dal tempo dell'esodo a quello del rifiuto del Messia.

Gesù ama il linguaggio metaforico. Gli consente di parlare di Dio con una terminologia corrente, ma non volgare, comprensibile, ma non banale. Soprattutto, con un linguaggio laico, non sacrale, un linguaggio lontano da ogni tipo di speculazione teologica o dai ragionamenti astratti degli scribi e dalle esortazioni moraleggianti dei maestri. Tutti devono poter capire. Solo così, infatti, tutti possono sentirsi interpellati: per questo la proposta del Regno è connessa alla vita reale, all'esperienza vissuta.
L'incarnazione di Dio, prima di essere un dogma di fede che riguarda la seconda persona della Trinità, è infatti il modo stesso di essere di Dio nei confronti degli uomini, è economia di salvezza che si realizza nella vita presente, non aleatoria promessa per un tempo disincarnato post-mortem. Non è forse proprio per questo che Paolo può chiedere ai cristiani di Filippi addirittura di far propri i sentimenti di Cristo Gesù? L'incarnazione, la kenosi, è il modo di essere di Dio che diviene modo di essere degli uomini. Di tutti. Non a tutti sarà chiesto di stendere, come lui, le braccia su una croce, ma a tutti è chiesto, come a lui, di non considerare la vita divina un privilegio neppure per Dio stesso.

Gesù predilige l'immagine della vigna perché gli consente di parlare di Dio, del suo modo di proporsi agli uomini e del suo modo di agire nei loro confronti, ma gli consente anche di descrivere le possibili risposte nei confronti della sua predicazione del Regno. Un proprietario, un padre, un re: Dio esercita, nei confronti della sua vigna, cioè nei confronti della storia del suo popolo, tutta la sua autorità. È l'unico che può farlo. Il suo modo di agire, come ricordano i profeti, non corrisponde alle nostre aspettative, e i suoi criteri di giustizia e di verità non sono i nostri. Perché Dio non vede solo quel che noi vediamo, ma conosce quel che noi non vediamo. Il suo atteggiamento nei confronti dei "peccatori" risponde a questa logica e proprio per questo è scandaloso. Come tutti gli altri profeti, anche Ezechiele mette Israele di fronte alla questione sempre aperta su cui si gioca il suo rapporto con Dio: è Dio che si comporta in modo non corretto o non è forse il popolo che non sa vedere, come lui vede, tra le pieghe del cuore umano?

Anche la seconda parabola della vigna prende le mosse da un interrogativo. Immediatamente prima, Gesù ha avuto un duro scontro con i sommi sacerdoti e gli anziani del popolo che avevano messo in dubbio l'autorità con cui egli predicava e faceva miracoli. Lo scontro verbale si era chiuso con il rifiuto da parte di Gesù di esplicitare a parole ciò che era risultato evidente attraverso i gesti che aveva compiuto durante il suo ministero. Con la parabola dei due figli Gesù rilancia la polemica: ora è lui a passare all'attacco.

Parabole sul comportamento opposto di due figli o di due schiavi, che perseguono lo scopo di spingere gli ascoltatori a prendere posizione per uno piuttosto che per l'altro, non sono rare nella tradizione giudaica. In questo caso, come spesso nelle parabole rabbiniche, ciò che è in gioco è la distanza tra il dire e il fare. Ciò che conta realmente davanti a Dio è fare, è compiere la sua volontà. Gesù l'ha ribadito senza sosta: non chi parla di Dio o si rivolge a Dio, ma chi fa la sua volontà potrà essere accolto nel Regno.
Alla fine, Gesù propone un'applicazione della parabola che non può non scandalizzare: per lui i due figli, quello che sembra ossequioso e obbediente e non lo è e quello che sembra incapace di obbedienza e invece obbedisce, corrispondono a due precise categorie di persone, i rappresentanti della religione ufficiale che gli si rivolgono con sussiego, ma sono ben lontani dall'accogliere la sua chiamata, e quelli a cui, invece, è lui a rivolgersi, pubblicani e prostitute.

Il comportamento dei due figli è proposto come alternativa. Interpella certamente ogni credente. Interpella però anche ogni comunità parrocchiale, ogni Chiesa locale e tutta la Chiesa universale nel "qui e ora" della sua chiamata. Quanto le nostre Chiese sono state capaci di ascoltare i profeti? Soprattutto chi, nelle nostre Chiese, crede a coloro che vengono, come Giovanni, sulle vie della giustizia? Eppure, Gesù propone proprio questo come unico criterio che stabilisce la differenza tra i due figli. Forse, quando ci sentiamo di vivere un tempo della Chiesa orfano di profeti è giunto il momento di interpellare pubblicani e prostitute.

VITA PASTORALE N. 8/2011
(commento di Marinella Perroni, docente di N.T.)



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