XXIV Domenica del Tempo ordinario (A)


ANNO A - 11 settembre 2011
XXIV Domenica del Tempo ordinario

Sir 27,30-28,7
Rm 14,7-9
Mt 18,21-35

IL PERDONO
ACCOLTO E CONCESSO

Nella terza pericope del discorso ecclesiale Matteo riprende l'insegnamento di Gesù sul perdono. Dopo aver ricordato le regole giudiziarie che garantivano il funzionamento della vita comunitaria giudaica, l'evangelista sancisce che il tratto distintivo della comunità dei discepoli non può essere altro che il perdono. Per Gesù, Dio è il Dio del perdono, la giustizia di Dio sta nella sua misericordia. Il perdono deve divenire lo stile di vita comunitario perché in tal modo raggiunge il suo scopo la pedagogia con cui Dio ha cercato di educare il suo popolo.

La dichiarazione di Lamech risuona, fin dalle prime battute del libro della Genesi, come una sorta di manifesto programmatico di tutta la storia umana: «Sette volte sarà vendicato Caino, ma Lamech settantasette» (4,24). La genealogia del male è possibile proprio grazie alla vendetta e, paradossalmente, è più tragico essere discendenti di Lamech che non di Caino. Un cuore libero dall'istinto di vendetta è dunque un punto di arrivo, mai di partenza. Per questo, quando esplicita il significato del comando dell'amore del prossimo, la Legge che Dio dà al suo popolo chiarisce che amare i fratelli significa, innanzi tutto, rinunciare a vendicarsi (Lev 19,18).

La parabola con cui Matteo correda l'istruzione di Gesù restituisce al tema del perdono la sua connotazione storico-salvifica, prima che morale o spirituale. È un aspetto molto importante. La tensione verso la simmetria speculare cielo-terra e terra-cielo, che scandisce il vangelo di Matteo, diviene qui ancora più esplicita e il detto con cui si conclude la parabola ne rivela la profonda portata teologica: il perdono non è un esercizio ascetico di pazienza fraterna, e la cifra emblematica di "settanta volte sette" non ne costituisce un'unità di misura ma, piuttosto, un'attestazione di incommensurabilità.

Il Dio della Bibbia educa al perdono. Dal mito originario di Caino fino all'esortazione sapiente del Siracide, ogni pagina della Bibbia racconta la storia di Dio con gli uomini come storia di liberazione che passa per il perdono. Anzi, il popolo che Dio si è scelto deve saper rinunciare ad aver bisogno di un Dio feroce e deve saper accettare, invece, che espressione piena del divino è solo il perdono. Quando, nel momento estremo della sua obbedienza a Dio, Gesù perdona coloro che lo hanno appeso al legno della croce, egli porta a svelamento definitivo quanto a Dio sta a cuore fin dalla fondazione del modo: non rispondere al male col male.

Troppo spesso la tradizione teologica ha insistito sul fatto che Gesù compie la volontà di Dio nel momento in cui accetta la morte. È del tutto lecito però chiedersi se il Dio amante della vita potesse avere per il suo Messia progetti di morte. Il compimento della sua volontà non sta, invece, proprio nella volontà di capovolgere l'auspicio di Lamech e attestare che anche agli uomini è possibile ciò che è possibile a Dio, cioè perdonare?

Dio salvaguarda perfino Caino. Anzi potremmo quasi azzardare a dire che egli, per primo, educa se stesso al perdono. Risponderà infatti all'infedeltà di Israele nei confronti dell'alleanza prima con la punizione dell'esilio poi, però, con la promessa messianica di una nuova alleanza. Al tradimento di un patto fondato sulla reciprocità Dio non risponde con la revoca del patto, ma con una sua riconferma. Chiede più a se stesso che non al suo popolo. Perché il male si risana col bene, non con la vendetta. Dio sceglie la strada del perdono e della misericordia. Per questo può chiedere agli uomini che il perdono e la misericordia siano la misura del loro cuore. Non sette volte, ma settanta volte sette.

È stato detto che la risposta che Gesù dà a Pietro è programmatica, non pragmatica, rivela cioè la dimensione assolutamente illimitata del perdono piuttosto che pretendere una legge di perfezione. Il perdono, prima di essere una prassi, deve essere un modo di pensare, un atteggiamento del cuore e della mente, un convincimento profondo. Gesù lo chiede a Pietro, perché lo chiede alla sua Chiesa. La Chiesa è realmente la "sua" Chiesa nella misura in cui diviene luogo di condono di ogni debito, luogo in cui la sapienza di Siracide viene proclamata e perseguita, richiesta e insegnata.

La conclusione della parabola è inquietante: com'è possibile che dei servi di Dio, che hanno sperimentato la sua misericordia, siano invece inflessibili e spietati nei confronti degli altri? Dai tempi di Matteo fino a oggi, non è soltanto possibile, è anche tristemente diffuso. Diviene anzi sempre più chiaro che l'ideologia religiosa contribuisce ad aumentare il tasso di ferocia. Se è vero che la storia recente richiama la nostra Chiesa alla vigilanza e alla parresia perché lo scandalo degli abusi sui minori ha minato la fiducia negli uomini di Chiesa non è meno vero che molti hanno rinunciato all'appartenenza alla Chiesa perché hanno incontrato uomini e donne di fede spietati. Nelle convinzioni e giudizi, nelle parole e gesti. Il senso della parabola è chiaro: sulla misericordia Dio non è disposto a trattare.

VITA PASTORALE N. 8/2011
(commento di Marinella Perroni, docente di N.T.)



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