XX Domenica del Tempo ordinario (A)


ANNO A - 14 agosto 2011
XX Domenica del Tempo ordinario

Is 56,1.6-7
Rm 11,13-15.29-32
Mt 15,21-28

UNA FEDE GENUINA
DA POTER CONDIVIDERE

La domanda è ormai urgente: quando il mondo, cioè le nostre nazioni e le nostre città, saranno finalmente casa di Dio e, quindi, «casa di preghiera per tutti i popoli»? Anche nei nostri Paesi di tradizione democratica e, quindi, "tollerante", pregare insieme in uno stesso luogo è diventato un diritto spesso negato. Coloro che lo difendono per se stessi, a gran voce e a tempo e fuori tempo, lo negano poi come diritto di altri che vogliono rivolgersi alloro Dio anche in terra straniera. Uno degli atti ritenuti più "scandalosi" da tanti difensori della purezza della fede cattolica durante il pontificato di Giovanni Paolo II è stato che il Papa abbia voluto pregare insieme ad altri leaders religiosi. Non deve stupire: cedere ad altri una fetta di monopolio su Dio incontra sempre strenua opposizione, dentro e fuori di noi. Figuriamoci allora condividere lo stesso mondo come comune casa di preghiera. Eppure, stando al profeta Isaia, quello sarà il punto di arrivo della storia, con o senza il nostro permesso.

Nessuno può negare che si tratti di un punto di arrivo arduo da raggiungere. Perfino Gesù e i suoi discepoli dopo di lui hanno dovuto sperimentare la propria resistenza a condividere con gli estranei e gli stranieri il diritto di rivolgersi a Dio. Il racconto della donna siro-fenicia è, al riguardo, esemplare. Gesù ha portato avanti la sua missione solo in terra di Israele, tra la Galilea e la Giudea, perché si sentiva inviato a Israele, a tutto Israele, ma soltanto a Israele. Non dev'essere stato facile quindi per i giudei che avevano creduto in lui fare i conti con il fatto che, dopo pasqua, la conversione dei pagani chiedeva loro di condividere, "figli" e "cagnolini", perfino lo stesso pane eucaristico. Non sembri un problema né peregrino né lontano: a tutt'oggi non è possibile prendere parte alla stessa mensa eucaristica neppure a cristiani di diverse tradizioni!

Il racconto matteano è ricco di indicazioni teologiche. La collocazione geografica dell'episodio rappresenta già un indizio: Gesù ha superato, sia pure per poco, i confini della terra di Israele e quindi la sua messianicità, che lo lega totalmente a Israele e alla storia biblica, si espone perciò ad altri bisogni e ad altre attese. O, forse meglio, agli stessi bisogni, ma di altri. La donna che, insieme al centurione di Cafarnao che chiede a Gesù la guarigione del suo servo, rappresenta l'unica "apertura" che Gesù fa al mondo pagano, gli impone una "conversione". Doppiamente "lontana", perché straniera in quanto pagana, e perché estranea in quanto donna, la siro-fenicia che grida senza tener conto di niente e di nessuno, ma soltanto della terribile malattia di sua figlia, appare subito come una vera e propria icona: essa rappresenta coloro che si rivolgono a Gesù perché hanno bisogno di aiuto, sapendo che l'aiuto che viene da lui, viene da Dio. Non è intenzione di Matteo esaltare la figura femminile, insistendo sulla sua umiltà e tenacia e sulla sua capacità di piegare perfino le resistenze di Gesù.
Il racconto non vuole essere edificante. Gesù non è affatto ben disposto nei confronti della donna e sembra che non la stia nemmeno a sentire, tanto che i discepoli debbono addirittura implorarlo. La donna, d'altra parte, è sfrontata, non ha il senso della misura, non rispetta gli obblighi imposti dalle convenzioni sociali e religiose. La sua, però, non è soltanto una richiesta di miracolo esasperata fino al punto di tradursi in pretesa, ma una bella manifestazione di fede. Si rivolge a Gesù chiamandolo "figlio di Davide", riconoscendo cioè in lui il Messia di Israele e chiamandolo "Signore", riconoscendo cioè in lui il Risorto.

Il dialogo teso e intenso tra Gesù e la donna sembra riflettere molto bene la forte difficoltà di cristiani venuti dal giudaismo per i quali il rifiuto di Israele era motivo di sofferenza e la loro separazione dalla sinagoga una vera e propria lacerazione: possibile che i figli, abituati a vivere in casa e a ricevere il cibo da Dio stesso, non riconoscano più il loro Dio, e il cibo dei figli venga ormai gettato ai cagnolini? Matteo sa che i primi passi della Chiesa cristiana sono stati difficili e complessi perché una parte del popolo di Dio ha rifiutato senza appello colui che era stato mandato «alle pecore perdute della casa di Israele» e i pagani invece hanno risposto con entusiasmo all'annuncio pasquale: la donna non cede e continua a rivolgersi a Gesù con un'invocazione cara al linguaggio dei salmi e sembra essere ormai lei, la pagana, ad aver fatto propria l'attesa messianica.

Le parole con cui Gesù alla fine riconosce la fede della donna pagana suonano come un'indicazione chiara per la vita della comunità cristiana che, separatasi dal giudaismo, deve cercare ormai tra i pagani la sua identità: anche in mezzo a loro è possibile incontrare una disponibilità totale a riconoscere in Gesù il figlio di Davide, il Signore! Le comunità cristiane non sono nate d'incanto o in modi miracolistici, ma sono sempre germinate sulle radici delle appartenenze religiose precedenti attraverso processi lenti e a volte dolorosi che hanno richiesto continui adattamenti alle questioni di fondo che coloro che venivano alla fede portavano con sé. Non dovremmo dimenticarlo nel momento in cui la Chiesa cattolica ritiene di essere chiamata a un serio impegno in vista di una "nuova evangelizzazione".

VITA PASTORALE N. 7/2011
(commento di Marinella Perroni, docente di N.T.)



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