XIX Domenica del Tempo ordinario (A)


ANNO A - 7 agosto 2011
XIX Domenica del Tempo ordinario

1Re 19,9a.11-13a
Rm 9,1-5
Mt 14,22-33

LA BARCA SU CUI
È SALITO IL RISORTO

Ancora una volta Gesù si sottrae. Non però da coloro che gli manifestano la loro ostilità, ma da coloro che lo seguono e lo ascoltano, dai suoi discepoli e dalla folla. Cerca la solitudine per pregare. Per Matteo, è questa la condizione che prepara una manifestazione della sua potenza di "Signore". Il carattere post-pasquale del racconto è evidente e lascia trasparire la consapevolezza di fede di una Chiesa che, non senza fatica, deve imparare a riconoscere il Risorto e ad avere fiducia nella sua presenza.

Per Matteo la preghiera di Gesù non è un atto di devozione personale. La sua solitudine sul monte è chiaro richiamo ai momenti in cui, dal suo primo discorso inaugurale dei cc. 5-7 fino alla solenne apparizione finale ai discepoli (28,16-20), era in gioco un'importante rivelazione di Dio. Al riguardo, per i cristiani che venivano dal giudaismo, l'esperienza di Elia aveva certamente valore paradigmatico: profeta di Dio è colui che ha imparato a stare alla sua presenza perché ha imparato a coglierne i segnali e a riconoscere in che modo egli si rende manifesto. Per la comunità cristiana, allora, Gesù non può essere stato soltanto un grande taumaturgo che andava incontro ai bisogni e alle sofferenze della gente. Come Mosè, egli ha visto Dio sul monte.

È evidente fin dalle prime battute che, più che fare la cronaca di un episodio, il racconto della barca nella tempesta intende veicolare un insegnamento forte che l'evangelista indirizza alla sua Chiesa. La barca lontana dalla riva e in balia delle onde è un'immagine ecclesiologica eloquente, come lo è il riferimento a Pietro e alla labilità della sua fede. Dopo la morte di Gesù, la comunità credente deve arrivare a credere in lui senza vederlo, a riconoscerlo vivo, a confidare nella sua potenza di "Signore". Gesù non sta sulla barca. Non può più stare in mezzo ai suoi come ci stava prima. Oltre tutto: viene la sera e si fa notte. Non si tratta della "notte della fede", cara ai mistici, ma della fede che è reale solo nella notte.

Dal punto di vista letterario, alcuni particolari non contribuiscono soltanto a colorare la scena di pathos narrativo, ma profilano con grande precisione la situazione della comunità ecclesiale. Lungo tutta la narrazione evangelica, Matteo sottolinea con forte realismo che la fede della Chiesa non può essere confusa con nessuna convinzione ideologica e per questo non genera certezze, ma è sempre esposta all'incredulità e al dubbio. Tante possono essere le forme di "vento contrario".
Acqua, tempesta e notte sono i simboli dell'insicurezza, del terrore e della morte, come gli ebrei hanno appreso dal linguaggio figurato dei salmi. Non si tratta però soltanto della condizione umana, perennemente esposta e minacciata, ma della fede che non si trasforma in una qualsiasi ideologia teologica perché è minacciata. Non si tratta, infatti, solo di un momento: dura tutta la notte!

Per la vita della Chiesa dovrebbe trattarsi di condizione non straordinaria, ma permanente. Credere che Gesù sia "il Signore" chiede molto, e non una volta per tutte. La sofferenza di Paolo per il popolo dal quale ha ricevuto la fede è significativa: nulla, neppure l'adozione a figli o aver dato la vita al Cristo secondo la carne, garantisce che si è capaci di accogliere il Messia e di credere in lui. Anche per Matteo né l'appartenenza alla comunità dei discepoli né la chiamata alla sequela possono esonerare i credenti dalla fatica della fede e dalla paura. Pietro presume che possa esistere una modalità preferenziale, che consenta ai discepoli di uniformarsi al Risorto senza passare dall'esperienza del dubbio e proprio qui sta il suo fallimento.

La fede nella risurrezione, infatti, non arma di certezze e l'esperienza del Risorto incute timore. Forse bisognerebbe ricordarlo più spesso. Colpisce, infatti, il numero crescente di canali radiofonici e televisivi attraverso i quali, ventiquattro ore su ventiquattro, viene fatta circolare un'immagine dell'esperienza cristiana in cui non si fa altro che parlare di Dio e con Dio ma, in realtà, in modi che non consentono a Dio di farsi presente. Veniamo inondati da una testimonianza di fede o troppo devotamente militante o troppo sconsideratamente esaltante, a seconda dei gruppi di appartenenza.

La paura dei discepoli sulla barca non è paura di quello che la vita porta con sé, ma paura di quello che la fede porta con sé, e l'invito di Gesù a "non temere" non può risuonare come balsamica parola di consolazione. In tutta la storia biblica, quando Dio si fa presente e si dichiara non è per stabilire una facile familiarità ma, anzi, per affermare la sua grandezza. Pietro chiede a Gesù una prova di acquisita vicinanza, ma Gesù riafferma che credere significa invece accettare la distanza. Perché solo Dio ci può salvare. Ancora una volta per Matteo adorazione e confessione di fede sono l'autentica espressione della fede ecclesiale. Mai l'una senza l'altra. Coloro che credono nel Risorto sanno in chi hanno riposto la loro fiducia e, anche nel buio della notte, della paura e del dubbio, mai la fede della Chiesa è cieca. Prostrarsi nell'adorazione, d'altra parte, libera la confessione di fede da ogni presunzione di arroganza della verità. Su quella barca su cui è salito anche il Risorto la fede della comunità discepolare arriva, finalmente, a tradursi in liturgia.

VITA PASTORALE N. 6/2011
(commento di Marinella Perroni, docente di N.T.)



torna su
torna all'indice
home