XIV Domenica del Tempo ordinario (A)


ANNO A - 3 luglio 2011
XIV Domenica del Tempo ordinario

Zc 9,9-10
Rm 8,9.11-13
Mt 11,25-30
IL REGNO È RIVELATO
AI POVERI E AI PICCOLI

Riprende l' "ordinarietà" dell'anno liturgico, il tempo pacato della lettura continua delle lettere apostoliche di Paolo e del vangelo di Matteo, che ci porterà fino alla conclusione dell'anno liturgico e sarà solo occasionalmente interrotto da alcune festività particolari. Non per questo, però, il "tempo ordinario" può essere considerato tempo della banalità. Anzi. Esso ci ricorda che la vita di fede è radicata nello scorrere ordinario dei giorni e che la vita della Chiesa non si costruisce solo intorno alla memoria liturgica dei "mirabilia Dei", cioè di quei momenti in cui Dio ha manifestato con potenza la sua partecipazione alla storia del suo popolo e del mondo, ma pure intorno al rendimento di grazie per la vita di ogni giorno, di ogni mese, di ogni anno. Anche se in modo del tutto casuale, il breve brano del vangelo di Matteo ben si coniuga con questo.

L'umiltà del Messia è una connotazione cristologica di importanza fondamentale. Essa esprime la maturità della fede di Israele, quando cioè la profezia è divenuta sguardo su un futuro non più inteso e sperato come ristabilimento di forza e di glorie passate, ma come assoluta novità di vita. Le cose "forti" di un tempo, carri e archi da guerra, sono ormai lasciate al passato, come dice Zaccaria, perché il re che restituisce a Gerusalemme la vittoria, è portatore dell'annuncio di pace. E, paradossalmente, questa pace è più forte di ogni pretesa di affermarsi con la forza della guerra perché stabilisce un dominio che arriva fino ai confini della terra. Abbiamo sperimentato la mondializzazione dei conflitti, la globalizzazione del mercato delle armi e nuove forme di aggressione terroristica che vanno al di là di ogni confine territoriale. Forse, periremo perfino in molti e tutti insieme perché ci siamo dotati di archi di guerra che sfidano le leggi della natura oltre che del buon senso. E, quando qualcuno parla di pace e dà la vita per la pace, siamo capaci di sofisticati "distinguo" che, non si sa come mai, arrivano sempre a giustificare azioni di guerra. Nello stesso modo, in alcuni momenti della sua storia, la Chiesa pretende di rendere testimonianza del Messia umile con il trionfalismo. L'umiltà del Messia che fa sparire i carri da guerra è molto meno facile da accettare di quanto crediamo.

Matteo combina insieme l'inno di lode di Gesù al Padre, con la testimonianza che egli dà di se stesso come Messia umile. Non è difficile capire perché. È necessario però restituire al termine "umiltà" la sua forza profetica e messianica e liberarlo da fraintendi menti moraleggianti.
La stanchezza e l'oppressione di cui il Messia umile si fa carico appartengono a coloro che non confidano altro che in Dio e che in ogni momento sembrano essere smentiti e schiacciati da quanto accade intorno a loro. Perché colui che si fida di Dio è vilipeso dall'ambizione e dall'arroganza di coloro che confidano nella forza e nella sopraffazione? È la domanda dell'uomo biblico di ogni tempo. È la domanda che sale imperiosa da una storia che, nonostante ci ostiniamo a considerarla storia della salvezza, non lesina ingiustizie e orrori soprattutto ai poveri e ai piccoli. Anche dopo la venuta del Messia. Si può credere che Gesù sia stato il Messia di Dio che ha annunciato ai popoli la pace e che il suo giogo sia dolce perché il suo peso è quello della vittoria? E il Messia umile non è stato forse ripetutamente sconfitto, non solo sull'albero della croce, ma anche dopo, tutte le volte che i suoi stessi discepoli hanno preferito sottostare al giogo pesante del potere e della forza? Chi sono, allora, i "piccoli" per i quali egli eleva al Padre il suo rendimento di grazie?

La questione percorre tutto il vangelo di Matteo e lo scuote in profondità. Non si tratta infatti di una questione astrattamente generica sulla quale è possibile fare accademia, ma per l'evangelista essa riguarda, essenzialmente, la vita della comunità dei discepoli. I piccoli infatti non sono soltanto i bambini che, comunque, restano il parametro con il quale va misurata la fiducia nella venuta del regno, ma sono coloro che, nella comunità discepolare, non rivestono ruoli né esercitano autorità. Per Matteo l'esercizio dell'autorità all'interno della comunità è questione decisiva, per questo la affronta a più riprese. Nel nostro testo essa riguarda, prima ancora che gli atteggiamenti e i comportamenti di coloro che esercitano diverse forme di autorità, addirittura il dono della rivelazione divina.

Diversamente dai dotti e dai sapienti, i "piccoli" non sono investiti di nessun magistero. Eppure, sono loro i destinatari della rivelazione di Dio ed è per loro che il Messia umile eleva al Padre l'inno di benedizione. Non si tratta di tracciare una linea di demarcazione tra categorie di credenti e la facile polemica contro i teologi a cui contrapporre la devozione popolare, oltre che equivoca, è anche depistante. Ancora di più lo è il mito della "santa ignoranza" e a nessuno dentro la comunità credente può essere interdetta l'intelligenza delle Scritture. La questione dell'esercizio dell'autorità nella Chiesa va radicata lì dove ad essa può essere riconosciuta la sua verità. Matteo non ha dubbi in proposito: il criterio a cui qualsiasi forma di autorità ecclesiale deve sottostare è quanto a Dio "è piaciuto". Anche se è un Messia umile che annuncia la pace.

VITA PASTORALE N. 5/2011
(commento di Marinella Perroni, docente di N.T.)



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