ANNO A - 26 giugno 2011
S.S. Corpo e Sangue di Cristo
Dt 8,2-3.14b-16a
1Cor 10,16-17
Gv 6,51-58
S.S. Corpo e Sangue di Cristo
Dt 8,2-3.14b-16a
1Cor 10,16-17
Gv 6,51-58
IL CORPO, LUOGO
DELLA PRESENZA REALE
È innegabile che la celebrazione della festa del corpo e del sangue di Cristo ha contribuito ad acuire, negli ultimi secoli, la divisione tra la Chiesa cattolico-romana e le Chiese protestanti. Se, come vuole Paolo, il pane unico che ci è stato donato ci ha resi un unico corpo, come si può accettare che proprio la celebrazione del corpo di Cristo renda le divisioni ancora più profonde? Anche in ambito cattolico non è facile liberare questa festa da ipoteche riduttivamente materialistiche che contribuiscono a mortificarne il significato. La sua collocazione liturgica alla fine del ciclo pasquale attribuisce invece a questa festività il suo primo e fondamentale significato: il compimento pieno dell'incarnazione sta nella risurrezione. Proprio sul corpo di Cristo si gioca, quindi, la grande tentazione della fede cristiana di separare l'una dall'altra o, addirittura, di svilire l'una negando l'altra. Proprio il corpo di Cristo è invece luogo di realizzazione di entrambe.
Celebrare il corpo e sangue di Cristo significa quindi riconoscere che il corpo è luogo della presenza reale di Dio. Solo, però, a partire dalla consapevolezza, espressa da Gesù nel gesto eucaristico, di un corpo speso per servire e non per essere servito e, per questo, annuncio della presenza viva e reale di Dio in mezzo al suo popolo. Solo a partire dalla corporeità della vita di Gesù e dalla forza simbolica del suo gesto eucaristico alla vigilia della sua morte è infatti possibile arrivare a capire le parole con cui l'evangelista Giovanni presenta la sacramentalità dell'eucaristia. Parole che, altrimenti, non possono che ingenerare perplessità fino allo scandalo.
Il valore sacramentale dell'eucaristia è legato infatti alla vita e al rendimento di grazie per la vita. Non può essere legato alla morte, per la quale rendere grazie è un non-senso. Per la lunga tradizione biblica, a fondamento della fede in Dio ci sono sempre e soltanto il riconoscimento e la fiducia: la preoccupazione di Dio per la vita del suo popolo è costante e il suo intervento è sempre per la vita, mai per la morte. Come la manna discesa dal cielo durante la lunga peregrinazione degli Israeliti verso la terra della promessa doveva servire a difendere dalla morte, così il pane di cui Gesù parla insegnando nella sinagoga di Cafarnao non fa memoria di una morte, ma è un pane che garantisce la vita. Perché, innanzi tutto è, come la manna pane dato, donato. La sacramentalità dell'eucaristia va allora ricercata anzitutto nell'azione con cui Gesù dà, dona quel pane. L'eucaristia non si prende, si riceve, si mangia, non si conserva, perché è pane donato per la vita. Né è data per saziare un bisogno individuale, ma è data "per la vita del mondo". È corpo "dato per voi e per tutti". Quel pane-corpo non è più soltanto, come la manna, un dono di Dio, ma è Dio stesso che si dona. È vita che dona vita. Di più, è vita eterna che comunica vita eterna.
La risurrezione di Gesù stabilisce dunque una differenza radicale tra il simbolo della manna e il sacramento del pane. A partire da quanto ha fatto con suo Figlio risuscitandolo dai morti, infatti, Dio comunica ormai a tutto ciò che esiste la vita che non muore. Subito dopo l'invito a mangiare la sua carne perfino i discepoli di Gesù arretrano perché il simbolo del pane può anche affascinare, ma la dimensione sacramentale porta in sé il peso dello scandalo. Ricevere il corpo e il sangue di Gesù come pane di vita eterna chiede infatti di credere che il corpo di ogni uomo e di ogni donna, il corpo del mondo, della storia e della Chiesa sono ormai chiamati a vivere la pienezza della vita. Non è poca cosa perché, se la parola di vita eterna svela la verità dei nostri corpi, come è possibile continuare a farne vilipendio?
Se la festa del Corpus Domini venisse istituita oggi, i suoi significati risentirebbero fortemente del confronto tra la riflessione teologica e il pressante interesse che la cultura contemporanea esprime nei confronti del "corpo" come realtà antropologica, sociale e culturale imprescindibile e al contempo enigmatica. Il corpo degli uomini e delle donne è infatti, per tutte le religioni e per tutte le speculazioni filosofiche, luogo da cui partire per pensare Dio, parlare di Dio, celebrare il proprio rapporto con Dio. Luogo da negare, come per alcune tradizioni filosofiche o religiose, o luogo da abitare e consacrare, il corpo non è solo un ammasso di cellule individuali né solo un patrimonio soggettivo. C'è il "mio" corpo e c'è il corpo dell'altro, ma c'è anche il corpo del mondo, il corpo della storia, il corpo sociale, il corpo della Chiesa. C'è il corpo di coloro che sono imprigionati e torturati, il corpo di coloro che soffrono, il corpo con cui afferrare il "carpe diem" e il corpo da proteggere e preservare. C'è il corpo delle donne, di cui solo ci si ricorda per parlare di sesso, e c'è il corpo dei migranti, dei malati, dei vecchi, di cui poco ci si ricorda.
I corpi ci interrogano e ci ricordano che al di fuori del rispetto dei corpi viventi c'è solo alienazione. È vero, anche infinite forme di idolatria del corpo alienano dalla verità dei corpi perché imprigionano nei loro simulacri. È anche vero, però, che una teologia che non prende sul serio i corpi non è solo alienante, ma rischia di essere blasfema.
Celebrare il corpo e sangue di Cristo significa quindi riconoscere che il corpo è luogo della presenza reale di Dio. Solo, però, a partire dalla consapevolezza, espressa da Gesù nel gesto eucaristico, di un corpo speso per servire e non per essere servito e, per questo, annuncio della presenza viva e reale di Dio in mezzo al suo popolo. Solo a partire dalla corporeità della vita di Gesù e dalla forza simbolica del suo gesto eucaristico alla vigilia della sua morte è infatti possibile arrivare a capire le parole con cui l'evangelista Giovanni presenta la sacramentalità dell'eucaristia. Parole che, altrimenti, non possono che ingenerare perplessità fino allo scandalo.
Il valore sacramentale dell'eucaristia è legato infatti alla vita e al rendimento di grazie per la vita. Non può essere legato alla morte, per la quale rendere grazie è un non-senso. Per la lunga tradizione biblica, a fondamento della fede in Dio ci sono sempre e soltanto il riconoscimento e la fiducia: la preoccupazione di Dio per la vita del suo popolo è costante e il suo intervento è sempre per la vita, mai per la morte. Come la manna discesa dal cielo durante la lunga peregrinazione degli Israeliti verso la terra della promessa doveva servire a difendere dalla morte, così il pane di cui Gesù parla insegnando nella sinagoga di Cafarnao non fa memoria di una morte, ma è un pane che garantisce la vita. Perché, innanzi tutto è, come la manna pane dato, donato. La sacramentalità dell'eucaristia va allora ricercata anzitutto nell'azione con cui Gesù dà, dona quel pane. L'eucaristia non si prende, si riceve, si mangia, non si conserva, perché è pane donato per la vita. Né è data per saziare un bisogno individuale, ma è data "per la vita del mondo". È corpo "dato per voi e per tutti". Quel pane-corpo non è più soltanto, come la manna, un dono di Dio, ma è Dio stesso che si dona. È vita che dona vita. Di più, è vita eterna che comunica vita eterna.
La risurrezione di Gesù stabilisce dunque una differenza radicale tra il simbolo della manna e il sacramento del pane. A partire da quanto ha fatto con suo Figlio risuscitandolo dai morti, infatti, Dio comunica ormai a tutto ciò che esiste la vita che non muore. Subito dopo l'invito a mangiare la sua carne perfino i discepoli di Gesù arretrano perché il simbolo del pane può anche affascinare, ma la dimensione sacramentale porta in sé il peso dello scandalo. Ricevere il corpo e il sangue di Gesù come pane di vita eterna chiede infatti di credere che il corpo di ogni uomo e di ogni donna, il corpo del mondo, della storia e della Chiesa sono ormai chiamati a vivere la pienezza della vita. Non è poca cosa perché, se la parola di vita eterna svela la verità dei nostri corpi, come è possibile continuare a farne vilipendio?
Se la festa del Corpus Domini venisse istituita oggi, i suoi significati risentirebbero fortemente del confronto tra la riflessione teologica e il pressante interesse che la cultura contemporanea esprime nei confronti del "corpo" come realtà antropologica, sociale e culturale imprescindibile e al contempo enigmatica. Il corpo degli uomini e delle donne è infatti, per tutte le religioni e per tutte le speculazioni filosofiche, luogo da cui partire per pensare Dio, parlare di Dio, celebrare il proprio rapporto con Dio. Luogo da negare, come per alcune tradizioni filosofiche o religiose, o luogo da abitare e consacrare, il corpo non è solo un ammasso di cellule individuali né solo un patrimonio soggettivo. C'è il "mio" corpo e c'è il corpo dell'altro, ma c'è anche il corpo del mondo, il corpo della storia, il corpo sociale, il corpo della Chiesa. C'è il corpo di coloro che sono imprigionati e torturati, il corpo di coloro che soffrono, il corpo con cui afferrare il "carpe diem" e il corpo da proteggere e preservare. C'è il corpo delle donne, di cui solo ci si ricorda per parlare di sesso, e c'è il corpo dei migranti, dei malati, dei vecchi, di cui poco ci si ricorda.
I corpi ci interrogano e ci ricordano che al di fuori del rispetto dei corpi viventi c'è solo alienazione. È vero, anche infinite forme di idolatria del corpo alienano dalla verità dei corpi perché imprigionano nei loro simulacri. È anche vero, però, che una teologia che non prende sul serio i corpi non è solo alienante, ma rischia di essere blasfema.
VITA PASTORALE N. 5/2011
(commento di Marinella Perroni, docente di N.T.)
(commento di Marinella Perroni, docente di N.T.)
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