Santissima Trinità


ANNO A - 19 giugno 2011
Santissima Trinità

Es 34,4b-6.8-9
2Cor 13,11-13
Gv 3,16-18

IL DIO TRINITARIO
NON ALLONTANA

Con l'ascensione al cielo del Risorto ha avuto definitivamente inizio il tempo dello Spirito e la manifestazione del Dio unico ha svelato la sua dimensione trinitaria. La conclusione del vangelo di Matteo, proclamato nella festa dell'Ascensione, lo esprime con chiarezza: il Dio di cui i discepoli del Risorto sono testimoni e alla cui presenza sono convocate tutte le genti ha il nome di Padre, Figlio e Spirito. A quel nome tutti possono essere consacrati con il battesimo. Profilando in questi termini la missione ecclesiale, Matteo mostra che con la risurrezione di Gesù Dio ha pronunciato l'ultima parola della sua rivelazione agli uomini. Tutto quello che è venuto dopo e che la teologia si è sforzata di elaborare e approfondire non sono state che variazioni su un tema che non ha più nulla di nascosto.

Celebrare la Trinità significa allora entrare nella prospettiva "battesimale", sentirsi inseriti e immersi in un Dio unico che si è rivelato come Padre, come Figlio e come Spirito. Rendere gloria alla Trinità non comporta avere a che fare con arcani mondi misteriosi a cui solo alcuni iniziati possono avere accesso. Perché la Trinità, epifania di un Dio che, per sua volontà, si è fatto riconoscibile, non può diventare causa di allontanamento e di estraniazione. La Trinità, che esprime il massimo della vicinanza di Dio, avvicina, non allontana. Non esclude né discrimina, ma fa arrivare a tutti gli uomini la luce della rivelazione di Dio. Perché, come il battesimo, anche la Trinità è svelamento di Dio per ogni uomo. Il volto trinitario di Dio racchiude in un'icona quanto la Scrittura ha raccontato con molte parole e in molte storie e quanto l'anno liturgico scandisce nel tempo. Non si tratta di un'astrazione logica o di un gioco di parole né, tanto meno, il Dio trinitario può fornire un modello di comportamento per le relazioni inter-umane. La Trinità racchiude in un solo termine l'intera storia della salvezza e narra quanto solo Dio può compiere.

Il termine "Trinità" dice che il Dio unico si relaziona con il mondo come amore provvidente, cioè come Padre, come abbondanza di grazia, cioè come Figlio e come offerta di comunione, cioè come Spirito. Per questo sulla Trinità non c'è da dire molto di più di quello che dice Paolo con le poche parole di benedizione con cui saluta la comunità dei cristiani di Corinto. Con analoga sobrietà, il breve brano evangelico tratto dal dialogo di Gesù con Nicodemo, il capo dei Farisei che va da lui di notte per interrogarlo, consente di mettere a fuoco che cosa significa credere in un Dio trinitario. Per Giovanni, il Figlio inviato dal Padre nel mondo è la manifestazione di un amore senza riserve. Nel suo vangelo Giovanni utilizza il termine "mondo" in una duplice prospettiva. Negativamente, il mondo è tutto ciò che si oppone alla manifestazione di Dio, è la realtà di coloro che sono nelle tenebre e rifiutano la luce. Su di essi, il giudizio è senza appello. Nelle parole di rivelazione che fanno seguito al dialogo con Nicodemo, invece, il termine "mondo" rimanda, positivamente, a ciò che Dio ama perché, uscito dalle sue mani, non può essergli ostile. Né, da parte di Dio, nei confronti di questo mondo può esserci alcuna condanna.

Il tema della condanna è al cuore dell'esperienza religiosa e, per questo, è al cuore anche della storia biblica. Essa mostra che la fede in un Dio che "ama il mondo" è tutt'altro che facile. Il mondo infatti, fin dal suo primo inizio, porta dentro di sé male, sofferenza, ingiustizia e pone perciò con forza la questione della colpa. Il senso di inadeguatezza nei confronti della divinità non è certo caratteristico della tradizione giudaico-cristiana, perché contrassegna qualsiasi universo religioso. Inevitabilmente, però, la rivelazione di un Dio che ha a cuore le sorti del suo popolo e che ha cura del mondo fin dal momento della sua origine rende la questione del rapporto tra male e colpa particolarmente bruciante. Quando coloro che rifiutano la fede dichiarano che lo fanno perché non vogliono entrare nel meccanismo della colpa mettono a nudo una grande verità.

Dai racconti della creazione al libro di Giobbe, tutta la Scrittura è attraversata dalla volontà e dal desiderio, dalla pretesa e dalla speranza di non attribuire a Dio l'origine del male, ma di attribuirne la responsabilità alla disobbedienza umana. Scagionare Dio dal male è la chiave di volta della fede biblica, a cui non corrisponde mai, come ci si potrebbe aspettare, la maledizione per gli uomini. Credere nel Dio di Israele e nel Dio di Gesù Cristo non significa scagionare soltanto Dio dal male, ma superare qualsiasi reciproca attribuzione di colpa. Nessuno deve essere condannato perché, più cruciale ancora della questione dell'origine del male, è la possibilità della sua soluzione. Liberare la fede dall'imputazione e dalla colpa. Non solo degli uomini nei confronti di Dio, ma anche di Dio nei confronti del mondo. La "salvezza" che il Figlio porta a definitivo compimento è liberazione innanzi tutto dalla colpa. Male, sofferenza e dolore sono passeggeri mentre la vita che non muore alla quale siamo destinati restituisce il rapporto tra Dio e il mondo alla relazione di reciproca fiducia. Il Padre non condanna, il Figlio non giudica, lo Spirito non separa: è questo il volto trinitario di Dio che predichiamo?

VITA PASTORALE N. 5/2011
(commento di Marinella Perroni, docente di N.T.)



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