La fragilità dell'impegno



Il diaconato in Italia n° 166
(gennaio/febbraio 2011)

C'È UN DOPO VERONA?


La fragilità dell'impegno
di Paola Castorina


Nella cornice della Speranza il convegno ecclesiale nazionale di Verona aveva rilanciato il progetto culturale, la formazione delle coscienze, una pastorale incentrata sulla persona. Nella triade «comunione, corresponsabilità, collaborazione» si era visto il leit motiv del Convegno che metteva i laici al centro di un rinnovato impegno comunitario e - indirettamente - i diaconi impegnati in una pastorale "integrata", segno forte e imprescindibile di una "spiritualità di comunione".
Le parrocchie sanno che non è andata così, la realtà monolitica italiana è poco permeabile a ogni seppur minima variazione di sistema. Eppure i convegni ci vogliono, c'è bisogno di confrontarsi, di tastare il polso. Pur non avendo alcun carattere rappresentativo in senso formale, l'assemblea di Verona era in grado di rendere esplicito il sentire ecclesiale. Questi incontri sono momenti preziosi per cogliere le istanze, le attese, del popolo di Dio. Quello ben formato, ovviamente. Perché forse uno degli equivoci ricorrenti è questo: se c'è da colmare la discrasia fra linguaggio mondano e linguaggio ecclesiale si fa appello ai laici, e la fatica ermeneutica è tutta loro; se c'è - a ben guardare - necessità di formazione sembra più utile fare riferimento a una struttura rigida e verticistica, inadatta a interloquire con i linguaggi - diciamolo pure - postmoderni. E i diaconi come dovrebbero acquisire la loro funzione di cerniera senza alcun "maestro bilingue"?
Insomma ci si aspetta che a cogliere i frutti di un convegno siano cristiani ben formati, maturi, attenti e impegnati. Ebbene riprendiamo da questi ultimi: «Il presupposto di una piena e feconda presenza e testimonianza laicale è costituito dalla comunione ecclesiale [...] una comunione forte e sincera tra sacerdoti e laici, con quell'amicizia, quella stima, quella capacità di collaborazione e di ascolto reciproco attraverso cui la comunione prende corpo». Questa non esclude un doveroso esercizio dell'autorità, ma implica e richiede che «questo compito e questa autorità siano protesi a far crescere la maturità della fede, la coscienza missionaria e la partecipazione ecclesiale dei laici, trovando in ciò una fonte di gioia personale e non certo di preoccupazione e di rammarico». Sono le parole della relazione conclusiva al Convegno del card. Ruini. La "corresponsabilità" ha percorso in vario modo il Convegno. E molta strada è stata percorsa da quando, col Concilio, venne superata la tesi del "mandato", attraverso cui i laici ricevevano una investitura formale, e ci si incamminava verso la "ecclesiologia di comunione". Una strada difficile e faticosa. «L'ecclesiologia di comunione, pienamente accolta anche dalla Chiesa italiana, ha faticato non poco ad affermarsi nella realtà delle cose per una serie di ragioni ricollegabili a una lunga tradizione di gestione quasi monocratica dell'autorità, alla tendenza dell'episcopato all'autoreferenzialità, alla centralità accordata al momento finale, quello della decisione, piuttosto che al momento della consultazione che la precede. Così l'ecclesiologia di comunione, anche se affermata in linea di principio, ha avuto, per quanto riguarda il rapporto episcopato-laicato, una solo parziale traduzione operativa sul piano nazionale» (G. Campanini, www.aggiornamentisociali.it). Sembra che gli sforzi, numerosi sul piano delle riflessioni, dei convegni, delle commissioni, cioè nei luoghi sia formali che informali, si scontrino poi con una realtà granitica e complessa, sforzi che pur trovando notevoli forme di collaborazione - per lo più elitarie - non riescono a intaccare lo zoccolo duro delle realtà sul territorio.

Testimonianza della carità
Nel discorso di Benedetto XVI al Convegno, c'è un forte appello al «rinnovamento nella continuità», inteso proprio come nuova tappa nell'attuazione del Vaticano II. Tre le sue prospettive: la costruzione di una nuova civiltà, la valorizzazione del laicato, la testimonianza della carità. Non vuole esserci nessuna interferenza con i lavori del Convegno, ma semplicemente una parola forte, evangelica. È dunque forte l'appello alla testimonianza della carità. Finalmente sentiamo parlare di Cristo e .dei poveri. E anche, in secondo luogo, l'assunzione di responsabilità civili e politiche.
Si tratta, infatti, di «un compito della più grande importanza, al quale i cristiani laici italiani sono chiamati a dedicarsi con generosità e con coraggio, illuminati dalla fede e dal magistero della Chiesa e animati dalla carità di Cristo». Certo, è richiesto un forte impegno per contrastare «le guerre e il terrorismo, la fame e la sete, alcune terribili epidemie»; ma «occorre anche fronteggiare, con pari determinazione e chiarezza di intenti, il rischio di scelte politiche e legislative che contraddicano fondamentali valori e principi antropologici ed etici radicati nella natura dell'essere umano, in particolare riguardo alla tutela della vita umana in tutte le sue fasi, dal concepimento alla morte naturale, e alla promozione della famiglia fondata sul matrimonio, evitando di introdurre nell'ordinamento pubblico altre forme di unione che contribuirebbero a destabilizzarla, oscurando il suo carattere peculiare e il suo insostituibile ruolo sociale». Potremmo, a dire il vero, allungare l'elenco alla luce dell'emergenza dei giorni che stiamo attraversando, considerando che fra il mistero della vita e della morte si svolge il gomitolo ingarbugliato delle migliaia di esistenze schiacciate da continue prevaricazioni, sociali, politiche, morali. È dunque forte l'appello alla testimonianza. Scrive p. Sorge: «Dopo Verona la Chiesa italiana sarà chiamata a mostrare la sua "efficacia trainante" col "rendere visibile il grande 'sì' della fede", non cedendo alla sovraesposizione mediatica o alla collusione con il potere, ma dando la priorità a multiformi testimonianze di carità negli ambiti quotidiani nei quali si articola l'esperienza umana. È necessario - sottolinea il Papa - che "tutte queste testimonianze di carità conservino sempre alto e luminoso il loro profilo specifico". Ovviamente la prima testimonianza di "alto profilo" sarà sempre la carità verso i bisognosi, gli ammalati, gli emarginati. […] In secondo luogo, come testimonianza alta di carità, Benedetto XVI cita l'assunzione di responsabilità civili e politiche da parte dei fedeli laici: "Cristo infatti è venuto per salvare l'uomo reale e concreto, che vive nella storia e nella comunità"» (B. Sorge, Editoriale, Aggiornamenti sociali, dicembre 2006).

La sfida tra fede e cultura
I diaconi, sia prima che dopo Verona, fanno spesso esperienza sulla propria pelle di quanto sia difficile tradurre la testimonianza della fede in un contesto di vita complesso e diverso come quello lavorativo, o più in generale, sociale, in cui vivono. Sembra di essersi persi a casa. propria. Questa esperienza di "diaspora" non dovrebbe rimanere sconosciuta a chi resta "tra le mura domestiche" della fede, perché, anche se conosciamo tutti quanto sia profondo l'analfabetismo cristiano (di ritorno o di nuova generazione), non tutti lo sperimentiamo con dolore, nei muri di incomprensione e nella incapacità di dialogo che pone in essere. Le strade percorribili sono tante, forse riconducibili a due prospettive, inevitabilmente contrapposte: l'arroccamento per difendere gli ultimi avamposti, l'esperienza migratoria. La prima ha tutto il fascino della battaglia eroica, la seconda ha quello del ritorno alle origini. La Chiesa «resta quasi contrassegnata da una vocazione all'esilio, alla diaspora, alla dispersione tra le culture e le etnie, senza mai identificarsi completamente con nessuna di esse, altrimenti cesserebbe di essere, appunto, primizia e segno, fermento e profezia del Regno universale e comunità che accoglie ogni essere umano, senza preferenza di persone e di popoli» (Pontificio Consiglio per la Pastorale dei Migranti e degli Itineranti, Erga Migrantes Caritas Christi, n. 22).
Le comunità cattoliche all'estero ci insegnano molto in termini di rischi, obiettivi, tensioni e "successi": il rischio maggiore è la ghettizzazione, il chiudersi in un nucleo etnico-culturale estraneo alla società in cui si vive, con il segreto obiettivo di acquistare tutto il potere socio-politico possibile per avere visibilità e potere. Il successo che in realtà possono sperare, oltre alla sopravvivenza, è di essere identità vive di una tradizione dinamica della fede, famiglie che non hanno paura di parlare con i propri figli che impareranno altre lingue, ed esperti conoscitori del territorio che abitano. L'esperienza di questa fragilità non è sterile. È una sfida che i diaconi stanno già vivendo, rimane da trovare l'aggancio tra le prospettive aperte dai grandi luoghi di confronto e il piano dei rapporti intra-ecclesiali.



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