Il diaconato in Italia n° 166
(gennaio/febbraio 2011)
EDITORIALE
Riscoprire la diaconia del deserto
di Giuseppe Bellia
Che cosa resta oggi del convegno di Verona nella vita pastorale delle nostre comunità diocesane e parrocchiali? Ha apportato qualche tangibile cambiamento nella mentalità del nostro popolo cristiano? E ancora, quale influenza ha esercitato sulla conduzione effettiva dei diversi movimenti ecclesiali? Se si guarda la letteratura più recente sul dopo Verona la cosa più sconcertante è il silenzio, l'oblio, il crollo d'interesse fatto registrare già a partire dai primissimi mesi. Fatto tanto più preoccupante se raffrontato con le aspettative suscitate dai commenti fatti a caldo da teologi e vescovi che facevano prevedere scenari di novità che avrebbero colmato le lacune pastorali affiorate dopo il convegno di Palermo del 1996.
Val la pena riprendere il giudizio autorevole espresso nella relazione conclusiva al Convegno dove si affermava che a Verona si era compiuto un «notevole passo in avanti rispetto all'impostazione prevalente ancora al convegno di Palermo, che a sua volta puntava sull'unità della pastorale ma era meno in grado di ricondurla all'unità della persona perché si concentrava solo sul legame, pur giusto e prezioso, tra i tre compiti o uffici della Chiesa: l'annunzio e l'insegnamento della parola di Dio, la preghiera e la liturgia, la testimonianza della carità». Sono andate così le cose in questi ultimi cinque anni? Qualcuno sa indicare come il primato della persona e il valore assoluto della sua unità si siano fatti strada nell'ordinaria trama dei rapporti tra pastori e gregge santo di Dio?
Qualcuno aveva espresso nell'immediato dopo Convegno letture raffinate e colte che coglievano questo o quel pregio, evidenziando le prospettive aperte fino ad affermare che il frutto più promettente dell'assise di Verona poteva essere quello di «ripensare l'unità della pastorale, articolata nelle funzioni e/o uffici della Chiesa (Parola, Sacramento, Carità/comunione e Carità/servizio), incentrandola maggiormente sull'unità della persona, sulla rilevanza educativa e formativa che queste funzioni possono avere». Il problema non era di natura teorico-dottrinale perché non si trattava di «sostituire al criterio ecclesiologico la rilevanza antropologica nel disegnare l'unità e l'articolazione della missione della Chiesa». Piuttosto si doveva poter mostrare che una pastorale pensata in prospettiva missionaria doveva essere in grado di saper «condurre l'uomo all'incontro con la speranza viva del Risorto». Fatta salva la differenza tra la funzione del criterio ecclesiologico e quello attento alla rilevanza antropologica, si voleva riaffermare nello schema dei tria munera «l'unità della
missione della Chiesa negli elementi che la costituiscono come dono dall'alto». In quanto dono rivela quell'eccedenza irriducibile che impedisce di assimilare l'attività pastorale a ogni forma di umanesimo. Naturalmente si poneva in evidenza «il rilievo antropologico dell'azione pastorale della chiesa, destinato all'unità della persona e alla figura buona della vita che vuole suscitare». In questo si ravvisava «l'insonne compito dell'agire missionario della Chiesa di dirsi dentro le forme universali dell'esperienza, che sono sempre connotate dall'ethos culturale e dalle forme civili di un'epoca». Il compito primario e imprescindibile, dettato non soltanto dal particolare momento culturale postmoderno, era di «saper mostrare la qualità antropologica dei gesti della chiesa» volendo in questo modo affermare che «il Vangelo è per l'uomo e per la pienezza della vita personale».
Il lettore comprenderà il motivo di una citazione così ostica e lunga; si è voluto riportare uno degli scritti più seri e apprezzati apparsi nel dopo Verona per mostrare quale sproporzione rimane oggi davanti ai nostri occhi tra quanto ci si attendeva di positivo dalla messa in atto dei progetti del convegno di Verona e l'esistenza feriale delle nostre chiese. L'impressione è che le attività e gli impegni ecclesiali delle nostre comunità sembrano ormai galleggiare in mezzo a detriti di iniziative pastorali di ogni genere, mentre lo scenario politico e morale del nostro paese sprofonda tra i miasmi di nebbie infernali.
In tutto questo ancora più deludente risulta il fatto che proprio il ruolo del laicato che, dall'attenzione riservata ai cinque ambiti antropologici doveva ricevere una spinta e una promozione più sostenuta, si è visto mortificare nella sua legittima aspirazione di crescita. Con pochissime eccezioni, quali iniziative concrete di seria formazione sono mai state tentate e avviate per avere un laicato maturo, capace d'impegnarsi in una collaborazione responsabile? Dagli ambiti antropologici, da quello delle fragilità in specie, ci si aspettava un rilancio o un consolidamento della funzione diaconale all'interno delle nostre chiese. Il passaggio dalla pastorale imperniata sull'unità dei tria munera, sopra ricordati, a quella incentrata sull'unità della persona, avrebbe dovuto potenziare il ruolo di raccordo proprio dei diaconi, eletti dispensatori della carità, chiamati per loro costitutiva destinazione a sostenere e assistere quanti sono nello sconforto e nel buio di un'esistenza infelice.
Lo sanno o dovrebbero saperlo tutti gli operatori pastorali, e non soltanto i diaconi più sensibili al mandato del servizio ai poveri, che il ruolo del diaconato ha subito un forte contraccolpo d'immagine negli ultimi anni per una guardinga messa in atto .della funzione diaconale che ha spinto a privilegiare le sagrestie piuttosto che gli uomini. Il primato dell'azione pastorale rivolta all'unità della persona poteva offrire l'occasione, in un momento di particolare difficoltà economica e sociale, per uscire dal torpore di una pervasiva attività di rattoppo che ha ormai contagiato non solo i diaconi. La stessa emergenza morale che sta attraversando il nostro paese, in mezzo al silenzio assordante di un potere clericale impegnato a compiere equilibrismi politici e contorsionismi morali tali da non urtare la suscettibilità dei potenti indifendibili, mostra quanto pesa l'assenza di un laicato adulto e affidabile che avrebbe potuto assumere un autonomo ruolo di riferimento lasciando al ministero ordinato il compito di annunciare il Vangelo ben oltre le vicissitudini della temperie politica. E qui si tocca con mano cosa vuoi dire non avere più voci profetiche nella nostra chiesa. Perché stupirsi allora dello sconforto che prende anche la coscienza laica più lucida e avveduta quando grida la propria delusione per il mutismo e l'inerzia della riflessione magisteriale, fin troppo reattiva su certe questioni morali, mentre si mostra inerte e comprensiva di fronte allo sciupio del corpo operato quotidianamente dalla violenza mediatica?
C'è ancora bisogno di profezia, di parole profetiche che non suonino perciò come reazione di rabbia o d'indignazione davanti a comportamenti indecorosi e insostenibili, ma come parole di verità che sanno avere il respiro lungo della speranza perché, mentre condannano il male, sanno prospettare il bene assoluto del Vangelo. Dal punto di vista biblico, profeta non è chi annuncia il futuro divinando eventi lontani, ma chi dice la verità essenziale e santa della Legge divina davanti a ogni coscienza e soprattutto davanti ai potenti, credenti o pagani che siano. Come ha fatto il Battista che a Erode, un re idumeo e non ebreo, ha gridato: «non ti è lecito». Un uomo di fuoco che sapeva essere pietoso verso le esigenze morali della gente comune (vedi Lc 3,10-14). Parola profetica è quella che sa preparare la via al Signore, come hanno capito Tonino Bello e David Maria Turoldo. C'è profezia in chi, con sguardo dolorosamente preveggente, denuncia il presente con il suo inguaribile carico d'ingiustizia, con la sua deplorevole dote di stupidità, con la sua dissimulata ignavia, conservando l'occhio lungo per saper riconoscere il progetto salvifico di Dio.
Per rassicurare le coscienze deboli non si devono esibire pensieri forti, incentivare apologie e proclamare certezze. Per svincolarsi dall'ammiccante e interessata offerta di apprezzamento e di condivisione dei valori religiosi, sbandierati dai cosiddetti "atei devoti", allettati dalla gerarchia clericale, ma non avvinti da Cristo, si ha bisogno di una vigorosa opera di discernimento spirituale, si ha bisogno di profezia; ma questa viene dal deserto e non dalle curie e dai curiali. Forse oggi è il tempo di riproporre questa preziosa diaconia del deserto che con pazienza s'impegna a preparare la via. La parola di Dio ha la forza di arrestare e correggere (cf. 2Tm 3,16) quell'avanzante e indecoroso scivolamento verso la barbarie e i diaconi potrebbero essere sentinelle che scrutano il venire di Dio per quanti, ricercando a tentoni la verità, «non sono lontani dal regno» (Mc 12,34).
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