L'itinerario pasquale arriva al suo culmine. Il testo giovanneo e quello lucano non concordano né sul dove, né sul quando, né sul come. Concordano però su ciò che è decisivo, cioè nell'affermare che, senza l'effusione dello Spirito, la pasqua resta incompiuta. Il Maestro non ha lasciato i suoi discepoli "orfani". Il Risorto è vivo. Non solo per se stesso, seduto alla destra del Padre nella gloria, ma è vivo perché comunica il suo Spirito e rinnova la faccia della terra. VITA PASTORALE N. 5/2011
Pentecoste
At 2,1-11
1Cor 12,3b-7.12-13
Gv 20,19-23
SENTIRSI CHIESA OGGI
È COMPITO NON FACILE
Quanto Luca racconta con i toni di un evento straordinario, Giovanni lo racconta invece con gli accenti dell'intimità che contraddistinguono lo stile e il linguaggio del suo vangelo. Dell'intimità, non dell'intimismo. La protofania a Maria e il suo annuncio ai discepoli, la perplessità attenta di Pietro, l'intuizione spirituale del discepolo prediletto e il riconoscimento tardivo ma esemplare di Tommaso hanno certamente per l'evangelista valore kerigmatico. Non bastano però a trasformare il gruppo dei discepoli in Chiesa. Ci vuole anche la forza dello Spirito che dona una consapevolezza collettiva, rinforza una fede condivisa, apre a una speranza comunicabile. Ci vuole un mandato missionario.
Ancora una volta, Giovanni ci fa tornare a "quel giorno", il primo dopo il sabato, che si è aperto con l'alba della risurrezione. È il primo dei sette giorni della nuova creazione. Il Risorto che si fa presente ed effonde il suo Spirito apre i suoi discepoli al futuro. Come l'Altissimo ha soffiato in Adamo l'alito di vita, così il Risorto compie lo stesso atto primordiale e la nuova creazione riceve la vita. Questa volta, però, la vita che non muore.
Se i discepoli non fossero riuniti tutti insieme, non ci potrebbe essere effusione dello Spirito. Non importa se, come per il gruppo gerosolimitano di uomini e donne riuniti nella "camera alta", ciò che li mette insieme è la fedeltà alle tradizioni oppure a tenerli uniti è la paura che li rinserra tutti in uno stesso luogo. Come lungo tutta la storia biblica, l'intervento creativo di Dio non ha bisogno di nessun punto di partenza che sia conveniente. A Dio interessa sempre il "dopo", non il "prima", e ciò che riunisce i discepoli è proprio la difficoltà a dare senso al "dopo". Come per Gesù risorto, anche per la Chiesa partecipare alla vita di Dio ha forza effusiva. È un "dopo" che, nel momento in cui orienta e sospinge verso la missione, conferisce la forza di un'identità pubblica. Luca racconterà questo "dopo" come storia di un annuncio che comincia nella molteplicità delle lingue perché è per tutti i popoli e che avanza verso confini sempre più lontani che non sono mai soltanto geografici. Giovanni, invece, suggella il dono dello Spirito con un mandato che è anche un monito. Perché per la Chiesa l'annuncio dell'evangelo e la remissione dei peccati non sono un potere, ma una responsabilità.
Annunciare il perdono: tutte le volte che rinuncia a proclamare la misericordia di Dio, la comunità dei discepoli di Gesù mortifica il dono dello Spirito. Solo a Dio spetta, nel giorno finale, rimettere o non rimettere i peccati. La Chiesa è invece investita della responsabilità profetica di annunciare il perdono di Dio e il Dio del perdono. Un compito grave di cui dovrà rendere conto perché coloro a cui non ha perdonato non saranno perdonati. Tutti portiamo il peso del male ricevuto e commesso, nessuno è senza peccato, tutti hanno bisogno di essere sanati. Quante volte, però, il volto arcigno delle Chiese ha impedito agli uomini di sentire la misericordia di Dio?
Sentirsi Chiesa oggi non è facile. Per tutti. Per gli entusiasti che, come i carismatici di Corinto, mirano a rinserrarsi in gruppi autoreferenziali, come per gli stanchi e affaticati che portano il peso di comunità che sembrano ormai senza futuro. Forse, però, in quei giorni in cui tutto ha avuto inizio, le cose non erano tanto diverse. Da questo punto di vista, l'unico decisivo, sia Giovanni che Luca concordano: l'effusione dello Spirito è la grande e definitiva "convocazione" che riunisce il popolo disperso, un popolo che non è molto più che un "resto", un piccolo gruppo discepolare impaurito e confuso.
Ciò che conta realmente, del resto, è soltanto un evento sacramentale che consente di riconoscere Gesù e di ritrovare la fiducia. Quando coloro che sono riuniti insieme ascoltano una parola messianica, il saluto di pace, e percepiscono che colui che è stato crocifisso non è stato abbandonato alla morte, ma è vivo, quando diviene possibile confessare insieme che "Gesù è il Signore", lo Spirito ha compiuto ciò per cui è stato mandato. E rende capaci di accogliere il comando missionario perché non tutto è finito quel giorno in cui il profeta di Nazaret è stato appeso a una croce e in cui una lancia gli ha trafitto il costato. Celebrare la festa dello Spirito è impegno serio. Non si tratta di inseguire facili quanto effimeri entusiasmi, ma di assumere la sfida dell'unità. Tra le Chiese, dentro le comunità, tra discepoli. Ma, anche con il proprio passato ricostruire nelle nostre Chiese la lunga storia di una missione che, grazie ai discepoli del Risorto e pure, spesso, nonostante loro, ha fatto arrivare l'evangelo della pace in tutti gli angoli della terra dove ciascuno lo ha potuto ascoltare nella propria lingua.
(commento di Marinella Perroni, docente di N.T.)
Pentecoste (A)
ANNO A – 12 giugno 2011