Un altro stralcio del lungo discorso di addio di Gesù, che Giovanni colloca alla vigilia della crocifissione, manifesta con grande chiarezza che la risurrezione non è né un episodio contingente né un'immaginazione: è una condizione di vita. Compiutasi in Gesù, essa deve progressivamente diventare la condizione di vita dei discepoli. È la "vita nello spirito" a cui Gesù deve educare i "suoi". VITA PASTORALE N. 4/2011
VI Domenica di Pasqua
At 8,5-8.14-17
1Pt 3,15-18
Gv 14,15-21
LA VITA
NELLO SPIRITO
L'esperienza della prima evangelizzazione di cui ci racconta il libro degli Atti, d'altra parte, insegna che la stessa predicazione apostolica ha avuto bisogno di tempo per arrivare a capire che essere battezzati nel nome di Gesù significa ricevere lo Spirito Santo. A riprova del fatto che il riferimento allo Spirito chiede una maturazione lenta di tutta la comunità credente, ben lontana da forme di entusiasmo che, paradossalmente, finiscono per rinnegare quanto sembrano esaltare. Forse, se la tradizione evangelica giovannea e la successiva tradizione cristiana hanno preferito continuare a usare il termine "Paraclito" non è per amore di esoterismo, ma perché esso rimanda a un'azione multiforme dello Spirito che, proprio in quanto tale, garantisce di radicare nella fedeltà di un'intera vita il rapporto con Dio.
Vivere la risurrezione significa infatti per i discepoli imparare a familiarizzare con "un altro Paraclito". Il primo, Gesù, è stato ormai definitivamente sottratto alla fisicità della relazione personale, alla consuetudine con la sua voce e con il suo sguardo, alla immediatezza di rapporto tra discepoli e Maestro. L' ''altro Paraclito", che è lo Spirito del Risorto, consente ai discepoli di vivere la relazione con Dio in un regime di visibilità diverso, addirittura esclusivo, che il mondo non può sperimentare.
La risurrezione, infatti, ha ormai tracciato la linea di demarcazione tra la vita e la vita-che-non-muore, tra l'economia della "carne e sangue" e quella dello Spirito, e soltanto a coloro che hanno ricevuto lo Spirito è possibile "vedere". Per i discepoli, credere nella risurrezione significa allora anche accettare di non essere più del mondo. Gli anni della vita fisica del Nazareno erano ancora un'epoca di ambiguità: anche il mondo ha potuto vedere Gesù di Nazaret, ha potuto ascoltare la sua rivelazione ed è arrivato fino a esprimere la sua sentenza di rifiuto. Anche il mondo aveva gli occhi per vedere.
Ora, invece, al mondo è preclusa la possibilità di vedere il Risorto, di accedere cioè alla verità della vita-che-non-muore. Definitivamente.
La risurrezione stabilisce Gesù nella pienezza di libertà del suo rapporto con il Padre e porta a pieno svelamento il senso della sua missione tra gli uomini. Il suo compito non era quello di fondare un movimento religioso, di farsi riconoscere come capo carismatico di un gruppo discepolare che, dopo la sua morte, avrebbe vissuto nel culto del proprio passato e del proprio fondatore. Il maestro morto non va mummificato nei cuori, non va imbalsamato nei ricordi. Anzi la sua morte è la condizione necessaria per raggiungere, o almeno per tendere, a quella libertà nel rapporto con Dio che è possibile solo quando si condivide ormai lo stesso spirito.
La risurrezione chiama in causa la fedeltà dei discepoli. Il vincolo che lega Gesù a Dio come Figlio a Padre è lo stesso rapporto che lega il popolo di Israele al suo Dio ed è anche lo stesso rapporto che Gesù ha instaurato tra i suoi discepoli e lui. Un rapporto di osservanza. Una parola, questa, che fa fatica a stare nel nostro lessico di uomini e di donne postmoderni. Dopo esserci scrollati di dosso ogni forma di precettistica eteronoma in nome di un'adesione autonoma a finalità e vincoli condivisi, vediamo oggi affermarsi il rifiuto per ogni forma di vincolo e l'indifferenza per ogni forma di osservanza. Per il lessico biblico, invece, amore e osservanza sono tra loro sinonimi. Solo insieme, poi, sono sinonimi di libertà. Per Israele come per Gesù, amore e osservanza coincidono perché la vita nello Spirito è intelligenza della legge e, per questo, l'osservanza rende liberi. Liberi anzitutto davanti a Dio perché scioglie dalla più sottile e pesante forma di schiavitù, quella nei confronti del divino. Gesù e i profeti prima di lui lo hanno testimoniato ed è costato loro un caro prezzo, poiché coloro che, ricorrentemente, si appropriano della cattedra di Mosè, trasformano la legge e l'osservanza in un ergastolo della libertà.
L'intelligenza della legge è scuola di libertà e non ha nulla a che fare con quel razionalismo del tutto estraneo alla tradizione biblica che affida la fede all'apologetica dei concetti ed esonera dalla "buona condotta in Cristo". La speranza di cui Pietro invita a "rendere ragione" è quella in una novità di vita ormai possibile. Una novità di vita che rende ragione del fatto che «è meglio soffrire operando il bene che facendo il male». La riflessione cristiana e la predicazione apostolica hanno sempre insistito sul primato della prassi né, per questo, possono essere tacciate di moralismo. La "retta coscienza" è, infatti, ben altra cosa: per questo smaschera e svergogna coloro che, fin dai tempi dei profeti, si agitano per difendere una fede che, fuori dalla storia degli uomini e delle donne che Dio ama, non è altro che mistificazione. Anche Satana si presenta come defensor fidei ed è invece il "divisore", colui che separa fede e prassi.
(commento di Marinella Perroni, docente di N.T.)
VI Domenica di Pasqua (A)
ANNO A – 29 maggio 2011