V Domenica di Pasqua (A)


ANNO A – 22 maggio 2011
V Domenica di Pasqua

At 6,1-7
1Pt 2,4-9
Gv 14,1-12

L'IMMANE FATICA
DEL TEMPO INTERMEDIO

Il ciclo liturgico di Pasqua si sviluppa lungo i quaranta giorni che, secondo alcune tradizioni neotestamentarie, separano la scoperta della tomba vuota dall'ascensione di Gesù. È il tempo della trasformazione interiore, in cui i discepoli imparano a riconoscere il Risorto e a vivere nella dimensione dello Spirito. Non è certo un tempo cronologico, come non lo sono stati né i quaranta anni dell'esodo né i quaranta giorni di Gesù nel deserto delle tentazioni. Non deve perciò stupire se per l'evangelista Giovanni tutto si svolge invece in un arco temporale molto più concentrato, una settimana, i sette giorni della nuova creazione. Per Giovanni, d'altra parte, l'iniziazione dei discepoli alla vita nello Spirito ha avuto inizio già alla vigilia della morte di Gesù, quando chiara ormai è la sua consapevolezza di star passando da questo mondo al Padre.

Credere alla risurrezione chiede un processo di formazione, un'iniziazione affinché il mistero, che conserva inevitabilmente la sua inaccessibilità, possa rendere però manifesti, a partire dalla storia della fede biblica e dalla capacità di riconoscere in Gesù la rivelazione del volto del Padre, i suoi significati. Nella notte dell'addio il Maestro consegna ai suoi l'insegnamento finale o, dovremmo dire, definitivo: è Lui e Lui soltanto la via di accesso a Dio. Nessuno dei "suoi", di coloro cioè che hanno condiviso con lui tre anni di rivelazioni, lo ha capito né lo poteva capire: Filippo non è diverso da tutti quelli che, pur essendogli andati dietro, non hanno visto nella predicazione di Gesù la rivelazione del Padre, come Tommaso non è diverso da tutti quelli che, per non farsi prendere nei gorghi di una fede mitica, hanno giustamente bisogno di collegare la risurrezione di Gesù alla storicità della sua morte. Tutti devono ripartire dalla risurrezione, perché solo a partire da lì chi vede Gesù vede il Padre. Anche, però: solo a partire da lì la storia del Nazareno diventa evangelo e non si confonde con quella dei tanti altri che, prima e dopo di lui, hanno accampato pretese messianiche.

Credere alla risurrezione significa anche entrare in una scansione diversa del tempo, cioè significa entrare nel tempo della vita-che-non-muore. Sembra una prospettiva destinata ad alimentare fantasie e immaginazioni, visto che lo scorrere del tempo della vita prosegue invece, tra, calendari, agende e orologi, con il ritmo di sempre. È vero infatti che la risurrezione di Gesù inaugura il tempo nuovo della vita-che-non-muore, ma esso resta ancora, inesorabilmente, un tempo dell'attesa: quanto dobbiamo aspettare perché Gesù ritorni? Di quanti anni, secoli o millenni Gesù ha bisogno per prepararci un posto e farci finalmente entrare nella dimensione nella quale egli stesso ormai vive la pienezza del tempo? Ancora una volta, dunque, la fede e la speranza devono misurarsi con la fatica del tempo intermedio perché la risurrezione, se da una parte inaugura il tempo della fine, scandisce però anche, d'altra parte, il tempo dello scarto tra la prima e la seconda venuta del Figlio dell'uomo.

Di ciò che aspetta le Chiese in questo "tempo intermedio", il racconto del conflitto che ha lacerato fin dai suoi primi inizi la comunità di Gerusalemme rappresenta un campione significativo. Non diversamente da altre storie, individuali e collettive, la storia della fede è storia di tensioni e di attriti, di conflitti e di separazioni. Alle comunità non vengono risparmiate le persecuzioni, ma neppure le divisioni interne e le scissioni. Anzi, viste nella prospettiva storico-teologica dell'autore del libro degli Atti, tanto le persecuzioni che le divisioni interne sono addirittura salutari e la rilettura postuma dei fatti riconosce che proprio attraverso di esse si è andato dipanando il filo rosso della continuità dell'opera dello Spirito. La frizione tra le due anime della comunità gerosolimitana, frizione teologica oltre che organizzativa, impone la separazione e la costituzione di una leadership comunitaria diversa da quella che si riconosceva nel gruppo dei Dodici. Considerata invece sullo sfondo del "tempo intermedio" in cui lo Spirito conduce le Chiese verso un futuro inatteso, essa costituisce il trampolino di lancio per la grande evangelizzazione.

Il "tempo intermedio" è tempo dello Spirito e, proprio per questo, tempo dell'edificazione dell'edificio spirituale. La predicazione apostolica che la tradizione fa risalire a Pietro stesso insiste con forza su ciò che garantisce la qualità spirituale della Chiesa: il suo fondamento kerigmatico, la sua osservanza della Parola, la sua connotazione di popolo sacerdotale. Tratti che, quando i nostri giornali parlano di Chiesa non emergono affatto perché, con tutta probabilità, alla cosiddetta opinione pubblica possono sembrare parole astruse. D'altro canto, né Gesù, quando lasciava ai suoi il suo testamento, né gli apostoli durante la loro prima predicazione hanno mai pensato di andare a finire sui nostri giornali. Si rivolgevano alle Chiese. La questione scottante, allora, è altra: quanto la Chiesa che contribuiamo come pietre vive a costruire è capace di presentarsi al mondo davvero come" edificio spirituale", stirpe eletta, sacerdozio regale, nazione santa, popolo che Dio si è acquistato perché proclami le opere ammirevoli di lui? Oppure, anche per noi queste sono parole astruse?

VITA PASTORALE N. 4/2011
(commento di Marinella Perroni, docente di N.T.)



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