La conclusione del vangelo di Giovanni rappresenta il coronamento del solenne itinerario pasquale che porta Gesù alla piena manifestazione della sua gloria. Per Giovanni, diversamente che per gli altri evangelisti, il cammino della passione è cammino di gloria: cominciato nel momento in cui la croce è stata innalzata e la salvezza è divenuta operante, esso trova ora nella vita della comunità credente il momento della sua massima espressione. Nel lessico giovanneo, però, termini come "solennità" e "gloria" non coincidono in nessun modo con qualcosa di straordinario, di eccezionale o di eclatante, anzi, la "gloria" di Gesù si manifesta pienamente nel momento in cui i suoi discepoli "vedono e credono". Non con gli occhi della carne, evidentemente, ma con quelli dello spirito. VITA PASTORALE N. 4/2011
II Domenica di Pasqua
At 2,42-47
1Pt 1,3-9
Gv 20,19,31
IL RISORTO APPARE
E SI FA RICONOSCERE
Il racconto della confessione di Tommaso è una delle pagine giovannee più famose e forse anche più suggestive. Per l'evangelista l'atteggiamento di Tommaso non riproduce tanto l'individualità di uno dei discepoli di Gesù ma è, invece, paradigmatico. Rispecchia cioè l'atteggiamento del credente in quanto tale, a qualsiasi generazione egli appartenga.
Un equivoco condiziona purtroppo pesantemente l'interpretazione di questo testo. Il valore paradigmatico della figura di Tommaso non sta, come normalmente ci piace riconoscere ed enfatizzare, nel fatto che la sua fede, come la fede di tutti e di ciascuno, è oscillazione tra credere e non-credere. Sta, piuttosto, nel fatto di rendere palese che se si sta al di fuori della comunità discepolare è difficile "vedere" il Risorto e, quindi, arrivare alla confessione di fede. Anzi, più precisamente ancora, al di fuori dell'assemblea liturgica comunitaria neppure la testimonianza apostolica riesce a convincere.
Non è un caso che le due apparizioni del Risorto avvengano solo di fronte alla comunità riunita nell'azione liturgica domenicale. È questo il luogo dell'incontro con il Risorto ed è la distanza da questo luogo che determina l'incapacità di Tommaso a credere, esattamente come è in questo luogo che si realizza la beatitudine per tutti coloro che, senza aver visto Gesù, crederanno in lui di generazione in generazione. Anche il testo degli Atti, che getta uno sguardo retrospettivo sulla vita della comunità gerosolimitana, traccia un paradigma: la comunità è luogo di relazioni efficaci perché la perseveranza alimenta la comunione, ed è luogo in cui l'azione sacramentale dell'ascolto, della preghiera e della carità educa a "vedere e credere".
Guardare alle nostre comunità è, allora, d'obbligo, come lo è anche chiedersi perché esse, spesso, si trasformano in "non-luogo". E forse, invece di continuare a individuare possibili cause e concause nella secolarizzazione o piuttosto che vagheggiare il ritorno a un passato che, con la sua ritualità divenuta alienante, i suoi sacramenti ormai senza sacramentalità, la sua precettistica colpevolizzante, non può tornare, potremmo deciderci a ripartire dall'unico punto da cui ha senso partire. Il racconto giovanneo insiste per due volte sul fatto che il Risorto si fa presente e riconoscibile solo in - mi si passi l'espressione - "regime di sacramentalità". Quando, cioè, è possibile identificare il Risorto con colui che è stato messo a morte e crocifisso e quando la confessione di fede suggella il vincolo tra fede e storia senza scivolare in un'ennesima forma di mitologia religiosa.
La nuova condizione di Gesù, non più legata al mondo fisico, e la nuova modalità di rapporto con lui vanno ancorate alla storia di Gesù di Nazaret, che è storia di un popolo e delle sue Scritture, storia di un uomo e della sua passione per il Regno, storia di un'opposizione e di una condanna, storia di una croce che impone di avere paura (cf Gv 20,19). Rispetto a questo, la mentalità contemporanea, con il suo scetticismo per ogni forma di ingenuità pre-critica, può essere davvero condizione privilegiata e tradursi in anticipo di grazia. Ogni tempo è "tempo favorevole", perché è tempo dello Spirito, e il nostro tempo, che chiede di passare da una religiosità del concetto e del precetto a una religiosità della relazione tra persone, chiede conoscenza di Gesù e del suo vangelo molto più di quanto il nostro sguardo sanzionatorio riesca a vedere.
Ci vuole un po' di coraggio, forse, per riconoscere, come fa l'autore della lettera di Pietro, che coloro che ci stanno intorno amano Gesù pur senza averlo visto e senza vederlo credono in lui (1Pt 1,8). Ma non è forse proprio questo il coraggio apostolico, quello che ha avuto Gesù nei confronti dei lontani e degli esclusi dalla pratica religiosa? Non è possibile vedere e credere nel Risorto se non si è capaci di vedere e credere in coloro che ci stanno intorno.
Ripartire da Gesù e dal suo vangelo è impegno serio. Perché il vangelo di Gesù non è un conglomerato di storie esemplari e, soprattutto, perché nessuno oggi si lascia adescare da un'episodica edificante. Ripartire da Gesù significa rendere ragione di quel vincolo tra fede e storia di cui le Scritture ebraiche e cristiane attestano la straordinaria e incontenibile fecondità. Significa anche, però, capire che coloro che non saranno perdonati potranno chiederci ragione del perché non li abbiamo perdonati. Gesù ci ha insegnato, infatti, che il perdono di Dio non si concede a chi lo chiede, ma si annuncia. Soprattutto a coloro che sono lontani dal meritarlo.
(commento di Marinella Perroni, docente di N.T.)
II Domenica di Pasqua (A)
ANNO A – 1° maggio 2011