Un lungo accompagnamento



Il diaconato in Italia n° 164/165
(settembre/dicembre 2010)

EDITORIALE

Un lungo accompagnamento
di Giuseppe Bellia


Accompagnare il percorso della nostra rivista in questi suoi 40 anni di servizio ai diaconi e alla diaconia nella nostra chiesa non è compito agevole se condotto nella parresia della fede. Come sempre, tra luci e ombre, delineare il senso di un cammino ecclesiale e ministeriale non impegna solo risorse d'ingegno per produrre oneste e sensate riflessioni, ma richiede anche e soprattutto doti di sapiente buon senso e di umile realismo dovendo riconoscere e accettare delusioni e limiti, propri e di struttura, sempre pronti a rendere grazie per quel poco di bene che si è seminato. Scartando quanto di enfatico e di autoreferenziale si può nascondere dietro ogni forma di celebrazione, si deve partire da quei tratti sicuri che in questi ultimi vent'anni hanno scandito gli orientamenti della rivista e la sua resa redazionale. Basterebbe scorrere i titoli delle note editoriali o i temi degli ultimi numeri per avere un quadro assai variegato, e ritengo corretto, di una stagione cangiante della nostra chiesa ancora in difficile gestazione. A fronte di una società sempre più caratterizzata da analfabetismo religioso, da un'invasiva eclissi del senso morale e ormai appiattita su un presente onnivoro e spento, si continua ad accompagnare una visione di Chiesa e una classe episcopale che sembra vivere di rendita per un cristianesimo popolare e devozionale dove il laicato promosso è solo quello buono a trasmettere le decisioni di una superiore e inappellabile regia non si sa, in verità, quanto saggia e ispirata. L'identità del ministero diaconale, dopo anni e anni di studi, di convegni e di ordinazioni, spiace dirlo, resta ancora debole e si dibatte dentro una visione generosa ma ancora segnata da frammentarietà pastorale e da supplenza ministeriale. Qualcuno, e non a torto, ha ricordato che il diaconato permanente nell'immaginario collettivo dei nostri cristiani o non ha identità oppure continua a essere immerso in una concezione di fatto più utilitaristica che sacramentale.
Per correggere questa penosa distorsione ministeriale ed ecclesiale in questi anni si è cercato di partire e ripartire ogni volta da quanto c'era di più certo e consolidato: il triplice «munus» della parola, della Mensa e della carità. Si voleva così liberare il servizio ministeriale da ogni forma di appiattimento clericale, ricordando agli altri due gradi del sacramento dell'Ordine che il diaconato è grazia santificante che lascia trasparire la gratuità inarrivabile di Dio; e ai diaconi che il cuore della loro diaconia non era fare l'omelia o quant'altro poteva essere visto come trofeo sottratto all'orgoglio presbiterale e nemmeno il frusciare liturgico di dalmatiche attorno al vescovo o le ambite prestazioni curiali, ma l'imitazione della servizievole e piena mediazione di Cristo Servo. Solo in questa prospettiva di sequela che, in un'ottica mondana sembra restringere il campo d'impegno diaconale, si poteva iscrivere il dilatarsi del servizio a tutto il corpo ecclesiale.
Si è riusciti a fare qualcosa? Si è raggiunto un qualche risultato? Si ha la consolazione di essere stati di aiuto a qualcuno? La risposta alla fine spetta solo a Dio e al tempo che, anche in un'epoca di connessione superveloce, sembra essere rimasto un galantuomo. Certo ingombrano memoria e desiderio le tante ingenuità e velleità sperimentate e le tante cose ancora da capire, da approfondire e da fare. Ne ricordiamo alcune: la consistenza di una vera spiritualità diaconale; il rapporto sacramentale che per i diaconi sposati unisce matrimonio e servizio ecclesiale; un accettabile compromesso di collaborazione con il preponderante ruolo dei presbiteri, specie se giovani.
E ancora come dimenticare: tutte le questioni legate ai criteri e alle fasi del processo di discernimento vocazionale; la consistenza reale della formazione intellettuale e spirituale di chi si presenta umanamente già formato; e infine la comprensione e la messa in atto della dimensione collegiale del diaconato. E su tutto, come autentica cartina di tornasole e test di reale crescita del ministero diaconale, quel sempre riproposto recupero dei poveri all'Eucarestia e della Chiesa ai poveri che costituisce l'eredità di don Alberto Altana e della tradizione della prima Comunità del diaconato che in tutti questi anni non è stata mai sottaciuta o sminuita.

Quale ruolo per i diaconi oggi?
All'interno del quadro sociale ed ecclesiale sopra accennato, si possono prospettare alcune linee specifiche di sviluppo, più che di evoluzione, della diaconia ordinata che ci permettono di situare la realtà diaconale nella sua giusta prospettiva storica. Ma un dato non può essere obliato: una giusta comprensione della figura diaconale esige sempre una previa chiarificazione della figura di Chiesa. Senza dubbio, lo si deve ancora ricordare, quella del diacono resta un'identità debole e questo non tanto per l'assenza di un pensiero teologico a sostegno ma, come è stato detto, per il fatto che al diaconato, sia a livello dei laici, sia a livello del clero, manca ancora un immaginario di riferimento, perché l'unica figura ministeriale conosciuta è stata sinora quella del sacerdote/parroco, a cui si contrappone quella del fedele/laico. Questa difficoltà permane e si riscontra anche dove una diversa condizione culturale avrebbe fatto sperare in un logico e opportuno ripensamento. Si potrebbe aggiungere che le figure diaconali fin qui conosciute, per quanto se ne incontrano alcune splendide e degne di apprezzamento, non hanno però colmato con la loro testimonianza questo vuoto, sicché anche all'interno della Chiesa molti hanno una percezione molto pallida dell'esistenza e della funzione diaconale. Da ultimo, a questo stato di cose, si deve aggiungere la rapida e tumultuosa mutazione generazionale intervenuta con l'ultima ondata di vocazioni diaconali. Per capire le ragioni di questa tenace resistenza verso l'innovativa reintroduzione del diaconato nelle nostra Chiesa, mi sembra più utile ripercorrere a grandi tappe il cammino fatto dai nostri diaconi in questi anni, come è stato visto e rispecchiato da interventi, saggi ed esperienze sulla nostra rivista.
Si può dire che tre diverse generazioni di diaconi si sono susseguite in Italia dal dopo Concilio fino ad oggi. Vediamone brevemente i tratti salienti. La prima generazione, seguendo le indicazioni del Concilio Vaticano II, aveva netta la direzione del cammino da percorrere: chiesa, eucaristia e carità formavano un trinomio programmatico che permetteva di avere una progettualità essenziale e chiara per congiungere dentro la comunità ecclesiale il ministero dei diaconi ai poveri. Il contributo di questa generazione di pionieri fu buono sul piano della testimonianza, ma risultò fragile dal punto di vista della formazione teologico-ministeriale. La generosità esemplare dei primi ordinati, non supportata da un'adeguata formazione, non riusciva a colmare, dopo un'assenza di secoli e secoli, quel vuoto d'immagine che consentiva di utilizzare al meglio la diaconia ordinata.
All'interno della nostra chiesa c'era in quegli anni un orientamento poco favorevole alla reintroduzione del diaconato; una parte dell'episcopato era propensa ad accettare in modo utilitaristico i servigi del diaconato senza recepire quei cambiamenti che la presenza del diacono esigeva all'interno delle comunità. In Italia, nel primo decennio di vita del diaconato, soltanto undici diocesi avevano ordinato diaconi. Tra queste le prime tre chiese erano quelle di Napoli (si deve alla grande figura pastorale del Cardinale Ursi l'istituzione dei primi diaconi; Torino (sotto la guida del cardinale Pellegrino) e Reggio Emilia (per l'instancabile opera promozionale di don Altana).
La seconda generazione (per intenderei quella degli ultimi anni Ottanta), ha visto la crescita del diaconato in molte diocesi e i vescovi hanno messo al centro il problema della formazione ministeriale e teologica. Da ricordare che il primo importante e impegnativo documento dei nostri vescovi è del 1993, puntualmente presentato e promosso dalla nostra rivista. Questa attenzione alla formazione ha dato ai diaconi un'impronta innegabilmente più colta ed una intonazione più ecclesiastica che eucaristica e caritativa. Si erano creati appositi istituti di formazione con corsi e professori adeguati, ma l'istituzionalizzazione della diaconia ordinata cominciava a togliere smalto al servizio primario da rendere «alle pecore perdute della casa santa di Dio». In questa fase il diaconato, non solo in Italia, ha guadagnato in solidità culturale, ma ha cominciato a perdere il riferimento eucaristico della carità che spingeva verso i soggetti privilegiati di ogni opera di evangelizzazione e di cura pastorale: i poveri. Se questa relazione costitutiva sembrava connaturale alla prima generazione che suppliva con lo zelo apostolico a una carenza di mezzi formativi, con la seconda, la diaconia caritativa ha perso smalto determinando il sorgere di una sensibilità diaconale diversa, rispecchiata nei mutati criteri di discernimento e di preparazione dei nuovi soggetti chiamati alla diaconia ordinata. In quest'ottica la stessa formazione spirituale e umana veniva ad arricchirsi e a impoverirsi insieme, come si è potuto vedere con le prime defezioni ministeriali. Si acquisiva una maggiore consapevolezza della funzione diaconale non disponendo di strumenti adeguati al ruolo e al compito di una diaconia rinnovata.
Nella terza generazione (quella del nuovo secolo), la formazione ha tentato di prendere un indirizzo molto più pensato ed equilibrato, completando il suo percorso istituzionale, anche grazie all'uscita di importanti documenti magisteriali a livello della Chiesa universale. Se nella seconda fase c'erano stati opposti eccessi, da una parte di chi pretendeva dai diaconi lo stesso livello culturale dei presbiteri e dall'altra di chi faceva tutto alla buona, conferendo l'ordinazione come atto di riconoscimento per i servizi resi, come una sorta di cavalierato al merito pastorale - eventi di cui ancora oggi se ne pagano le conseguenze -, nella fase attuale si assiste a un stato penoso di indecisione che vede in molte diocesi il blocco di ordinazioni diaconali.
Ma in concreto, che cosa è accaduto? I vescovi e i preti hanno cominciato ad apprezzare il ruolo suppletivo dei diaconi e il loro servizio di fatto è stato interpretato come ausilio, più o meno provvidenziale, per rimediare ad una certa carenza di forze clericali. Gradualmente il diacono dalla strada si è ritirato nella sagrestia e dalla periferia si è spostato verso il centro passando dalla formazione nelle aule scolastiche alle più rassicuranti curie, dimenticando o sottovalutando il servizio ai piccoli e agli ultimi. E così l'ultima generazione diaconale, in linea con la tendenza dell'ultima generazione presbiterale, si lascia affascinare dai lustrini e dagli abiti, s'impegna a conoscere il cerimoniale dei pontificali, piuttosto che la diaconia liturgica; insomma, manifesta una attitudine meno eucaristica e quindi meno servizievole, tendenza che oggi, nell'insieme, riguarda tutta la chiesa italiana.
Proprio la riflessione su queste rapide mutazioni generazionali caratterizzate da una minore solidarietà e sensibilità sociale, deve spingere a chiederei se siamo in presenza di una fase regressiva che contagia oltre alla diaconia ordinata anche il ruolo del laicato cattolico. Si preferisce tornare verso più rassicuranti forme di strutture clericali? Si vuole tornare al passato, riprendendo forme devote di culto e tradizioni non conciliari spiegando tutto questo come ritorno al Signore? Insomma, ci si propone di recuperare il passato o di convertirei continuamente e con tutto il cuore al Dio crocifisso? Mi sembra che siamo davanti ad un formalismo neoclericale, affatto disinteressato nell'acquisire o nel mantenere livelli di potere, che si preoccupa di difendere l'immagine e il prestigio insidiati dalla comparsa di nuovi soggetti della vita ecclesiale e protagonisti dell'impegno pastorale. Non pochi diaconi lamentano che le ordinarie attività pastorali sono oggetto di contesa non solo con i preti, ma anche con i laici. Di questo clericalismo di ritorno, lo si deve ripetere, gli elementi rivelatori, anche per il discernimento vocazionale, sono la preferenza accordata alle pratiche di devozione a spese della Parola e della vita liturgica della chiesa. I nostri vescovi ritengono che questa involuzione non sia affatto remota e riproponendo, fino all'ultimo documento del 2010 Per una paese solidale…, la centralità dell'eucaristia domenicale e uno spirito di ritrovata fraternità, vogliono contrastare questo indirizzo esteriorizzante che tanta presa sta avendo anche sul popolo di Dio.
In verità, collegato al primo, anche un altro rischio minaccia l'esercizio concreto della diaconia ordinata: è il lento scivolare del ministero diaconale verso un auto-appagamento soggettivo, svincolato cioè dall'oggettività dell'azione sacramentale della Chiesa. Accanto alla possibilità di una ricaduta neoclericale si pone dunque il rischio di un'azione pastorale dei diaconi che inseguono nel ministero ordinato compensazioni, rivincite e auto-realizzazioni. In questi casi l'attività diaconale risulta slegata sia dall'eucaristia, sia dalla realtà ecclesiale. Non si rischia forse in questo modo di ibernare per altri secoli il diaconato permanente?
Il triplice munus del ministero diaconale, quello della Parola, della santificazione e della guida del popolo di Dio, alla luce di quanto è stato detto in precedenza sugli sviluppi degli impegni ecclesiali proposti oggi dai nostri vescovi, si può cercare e trovare un suo preciso campo di azione, permettendo la sperimentazione e la realizzazione di forme di diaconia quanto mai inusuali e creative. Non si vuole presentare qui un elenco esaustivo, ma solo qualche accenno esemplificativo da valutare e approfondire anche in riferimento alle esperienze diaconali già avviate. In relazione al munus nuntiandi, il diacono, se non si annoda sul problema dell'omelia, ha davanti a sé la possibilità di esercitare la diaconia della parola in tutta la sua duttile e vasta potenzialità, dall'annuncio alle diverse modalità di catechesi, dalle celebrazioni liturgiche a tutti quei luoghi dove la parola di Dio può arrecare consolazione agli uomini. Per il compito di santificare i fedeli, l'impegno di formare comunità vive incentrate sull'eucaristia domenicale, così caldamente raccomandato dal Papa e dai nostri vescovi, permette ai diaconi, nel rispetto della tradizione e nella vigilanza del cuore capace di cogliere l'azione sempre nuova dello Spirito, di far partecipare il popolo di Dio alla stessa azione salvifica. Infine, anche oggi la diaconia della carità ha la possibilità di dispiegare il massimo di impegno generoso e di inventiva pastorale, permettendo all'eucaristia di mostrarsi come la fonte e il culmine di tutta la vita della Chiesa. Legando l'azione caritativa alla sua fonte esemplare e collegando l'eucaristia a tutte quelle forme di nuova povertà che oggi, in questo tempo di recessione, interpellano in modo drammatico le nostre comunità, si realizza quell'opera missionaria richiesta dal Vangelo.

Il diaconato degli sposati: una grazia da approfondire
Esistono alcune illuminanti meditazioni sulla figura del ministro sposato che la felice formula del «servizio familiare» sembra, in qualche modo, racchiudere, ma sino ad oggi è mancata una compiuta riflessione teologica su quella necessaria interazione che collega il sacramento dell'ordine a quello del matrimonio. Ritardo speculativo e difetto di elaborazione sistematica che toccano anche le Chiese d'Oriente che pure vantano una più lunga esperienza a riguardo. Ci si deve chiedere a riguardo come funziona in concreto il confluire di questi due sacramenti nella persona e nell'azione ministeriale del diacono, sia riguardo all'apporto che il matrimonio arreca alla diaconia ordinata, sia in relazione alla grazia di servizio che il diaconato immette nella vita familiare. Collegare nella persona del diacono la figura di Cristo servo e sposo è certo suggestivo e apre molte prospettive, tuttavia non è prerogativa specifica del solo diacono uxorato, realizzare nella propria persona questa doppia configurazione al mistero di Cristo, perché riguarda ogni battezzato, ogni discepolo, ogni consacrato.
Forse, più che ricercare un rapporto esclusivo tra il sacramento dell'Ordine e quello del Matrimonio, ritengo che sia più proficuo cogliere la relazione che lega, entrambi i sacramenti, a quello fontale e apicale dell'eucaristia. Una strada ancora da percorrere questa ma ricca di prospettive incoraggianti, perché l'eucaristia che «fa la chiesa», dà anche conto del senso e dell'orientamento che i diversi sacramenti hanno e devono svolgere in relazione alla crescita ben compaginata e connessa di tutto il corpo di Cristo (cf. Ef 4,16).
Forse le pagine più belle dovranno scriverle i diaconi sposati alla luce della loro arricchente esperienza di grazia, ma a riguardo il punto di vista teologico deve essere meglio incentrato. In ogni caso, per quanto è giusto, e ancora poco praticato, il riflettere sulla novità di una nuzialità sacramentale che si coniuga con il dono che conforma a Cristo servo, si devono mettere in guardia i diaconi dal cadere nella trappola di una doppia e ingenua enfatizzazione. Da una parte si tende a esaltare una maggiore efficacia del ministero diaconale, perché si pensa che l'addizione di grazia di due sacramenti, ordine e matrimonio, renda più vivo ed esemplare il ministero e quindi la stessa vita familiare; in questo caso il sacramento del matrimonio nei non diaconi avrebbe una minore intensità di grazia? Dall'altra si spinge a celebrare l'attività diaconale e pastorale dell'intero nucleo familiare, ritenendo che il matrimonio richieda, nell'esercizio del ministero, la piena partecipazione della moglie del diacono al suo ministero, come se il sacramento dell'ordine fosse stato conferito alla coppia e non al solo ordinato. In questa prospettiva, per nulla fondata nella Scrittura e carente di visione cristologica, che dire poi della diaconia ordinata dei diaconi celibi o degli stessi diaconi rimasti vedovi? Saremmo in quel caso davanti a un ministero minore e monco? Il coinvolgimento della sposa nella vita ministeriale del marito è una problematica umana e spirituale seria, nuova e tutta da esplorare, ma non sono certo le speculazioni teologiche improvvisate, sbilanciate biblicamente e fortemente emotive che possono arrecare un vero contributo di luce su una realtà aperta e, in gran parte, ancora da conoscere e verificare.

Una parola per continuare a sperare
Si è accennato solo ad alcune questioni indicative dello stato di salute dei nostri diaconi. Certo ci sono anche altri elementi critici e di disagio nell'attuale ministero diaconale, dalla carente definizione delle funzioni sul piano ecclesiologico e pastorale al problema delicato e mai affrontato con sano realismo del sostentamento, per non tacere delle perduranti incertezze teologiche o delle ambiguità persistente di alcuni testi ufficiali che sembrano denotare un livello sconcertante di discrezionalità delle istituzioni riguardo non solo al discernimento vocazionale, alla formazione e al ministero, ma anche riguardo alla stessa funzione sacramentale dei diaconi nella Chiesa.
L'identità diaconale non può essere compresa per esclusione (quello che non fa il vescovo e il prete spetta al diacono) e del resto non è dal fare che si delinea l'identità di ogni figura ministeriale ma dal suo agire sacramentale. La Chiesa nel suo magistero, fino all'ultima Lettera enciclica del papa sull'eucaristia, ha affermato in vari modi l'intenzione di rimettere al centro l'eucarestia, e dunque la Messa domenicale. Questa intenzione, se compresa ed applicata, potrebbe produrre cambiamenti e novità molto interessanti nelle nostre comunità.
Se si mette al centro la celebrazione eucaristica si vede come la lex orandi delinea per il diacono una duplice ed essenziale opera di mediazione: dalla chiesa al mondo e dal mondo alla chiesa. Da una parte spetta al diacono consegnare la parola di Cristo e della Chiesa agli ultimi, ai diseredati e ai poveri; dall'altra deve riportare alla comunità, la voce, la preghiera, la speranza di questi emarginati. Per questo proclama un vangelo che, di regola, non spiega nell'omelia, perché la sua diaconia della parola si dovrebbe indirizzare non verso l'assemblea liturgica (può capitare che svolga questo compito sussidiario per motivi contingenti, particolari), ma verso il più vasto corpo ecclesiale, facendo risuonare «fino ai confini del mondo» la Parola accolta e spiegata dalla Chiesa. In altri termini, nel ministero del diacono si fa esperienza della stessa natura della Parola di Dio: da un lato è indisponibile perché è di Dio, dall'altra, come una madre al suo bambino, si adegua a chiunque è donata. Il diacono compie entrambe le cose. Da una parte dichiara la santità altissima della Parola di Dio, dall'altra, dove è inviato, ha il potere di adattarla alle esigenze di ognuno. Si può ricordare anche il compito analogo svolto dal diacono nell'altra mensa della celebrazione eucaristica, quella del corpo dato e del sangue versato per l'alleanza. Anche in questo caso il diacono si trova a distribuire ciò che non consacra. In particolare è il custode del sangue dell'alleanza che dona lo Spirito promesso e, con l'amore di Dio riversato nei nostri cuori, porta anche la carità della chiesa ai poveri. Spetta al diacono incarnare la misericordia divina conformandosi alle necessità di ognuno, donando insieme al Consolatore anche il segno materiale della consolazione ecclesiale: solo così diviene strumento e animatore della carità nella Chiesa.
Ed è in questo movimento di gratuita attenzione agli ultimi che il diacono, mentre porta all'esterno il conforto materiale e spirituale della Chiesa, riporta al cuore della Chiesa il gemito dei poveri. Nella preghiera dei fedeli, che spetta, appunto, al diacono presiedere e ordinare, si manifesta la circolarità del suo impegno ministeriale: perché solo lui - e chi più di lui - dovrebbe conoscere la reale sofferenza delle «pecore perdute della casa d'Israele», le prime destinatarie di ogni missione e di ogni azione sacramentale di cui diviene la voce davanti ai fratelli e davanti a Dio. Ovviamente questo scenario ha senso in una comunità veramente eucaristico-centrica e dunque tutta ministeriale, tutta diaconale. Ed è per questo che lo strano spettacolo a cui si assiste da un po' di anni che vede anche un numero crescente di diaconi pencolare verso le sacrestie anziché verso le periferie, è un non senso quanto mai indicativo delle mutazioni in atto nel nostro tessuto sociale ed ecclesiale. Dilettarsi di sacre cerimonie non vuoi dire amare l'eucaristia e ancor meno i poveri.
Allora quale futuro per il diaconato? La risposta per adesso tarda ad arrivare ma, alla fine di queste brevi considerazioni, mi auguro che appaia più chiaro che la diaconia ordinata acquista valore se si recuperano i poveri alla Eucaristia e perciò la Chiesa ai poveri. Solo in questa diversa ottica ecclesiale ha senso parlare di una trasformazione dei rapporti fra i tre gradi dell'Ordine e di una crescita della ecclesiologia di comunione. I diaconi, e quanti hanno a cuore la diaconia di Cristo, devono sentire urgente l'impegno di vigilare per ascoltare e discernere ciò che lo Spirito, anche nel nostro tempo, non cessa di dire alle Chiese.



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