Immagini di inondazioni e di straripamenti di fiumi ci sono diventate, purtroppo, familiari. La discussione sulle cause dei disastri idrogeologici che affliggono ormai ricorrentemente e drammaticamente il nostro Paese, almeno quella di cui rendono conto i giornali, è a dir poco offensiva per il buon senso comune oltre che per il senso civico che ancora resta almeno in una parte della popolazione italiana. I comuni italiani che vogliono dotarsi della competenza di un geologo sono un segno dei tempi ma, soprattutto, fanno quasi sperare che la lezione sia servita: le case che vengono costruite sulla sabbia sono una stoltezza che, prima o poi, presenta il conto. VITA PASTORALE N. 2/2011
IX Domenica del Tempo ordinario
Dt 11,18.26-28.32
Rm 3,21-25a.28
Mt 7,21-27
LA PARABOLA DELLE DUE CASE
E IL SUO SENSO
Il significato della parabola delle due case non va però circoscritto a un realistico consiglio di assennatezza edile. L'operazione letteraria con cui Matteo collega l'immagine delle due case con l'ammonimento di Gesù all'obbedienza alla volontà di Dio garantisce, infatti, che l'insegnamento della parabola vada ben oltre l'invito alla previdenza e alla prudenza. Posta poi a conclusione del primo grande discorso, quello in cui Gesù annuncia il compimento della legge antica, la parabola delle due case rivela con chiarezza il suo significato escatologico.
Anche se ridotto soltanto a un accenno, d'altra parte, il brano del Deuteronomio fornisce alle parole di Gesù un contrappunto importante perché le colloca nella grande tradizione obbedienziale di Israele. Il ragionamento di Paolo sul rapporto tra fede e opere, poi, impone di guardare alla necessità del "fare" e alla coerenza tra il dire e il fare senza cedere all'edificante moralismo delle "piccole cose nascoste". La liturgia della parola che chiude il primo ciclo di domeniche del tempo ordinario, delinea insomma un quadro completo dell'identità credente. Tutt'altro che semplicistico, esso prevede una dialettica interna tra i diversi termini in campo.
Non è detto infatti che la logica del fare sia meno sconsiderata dell'incoerenza di coloro che dicono e non fanno: anche chi costruisce le case sulla sabbia non chiacchiera solo, ma si dà da fare! Addirittura, il paradosso dell'ammonimento di Gesù ci mette di fronte al fatto che si possono fare anche molte cose importanti e religiosamente qualificate ed essere misconosciuti e trattati da Dio stesso come figli dell'iniquità. Profetare, cacciare i demoni, compiere prodigi: non sono forse proprio le opere che hanno connotato l'attività di Gesù stesso e che, secondo lui, accreditano la chiamata al discepolato e accompagnano la missione apostolica? Come è possibile allora che Gesù disprezzi coloro che le compiono fino a considerarli operatori di iniquità?
Fare la volontà di Dio richiede obbedienza: è quanto Israele ha imparato lungo la sua storia, una storia lunga quanto la sua disponibilità a maturare la consapevolezza dell'obbedienza come libertà. Sempre, d'altro canto, l'obbedienza religiosa si traduce in paradigmi di valori e codici di comportamento, ma nel momento in cui viene standardizzata in tali paradigmi e tali codici, essa non rispecchia più la volontà di Dio. Anzi, perde il contatto con la volontà di Dio. Quando, a tutti quelli che, litanicamente, affermano che nel nostro tempo non ci sono più valori, rispondiamo che il vero problema non è questo, veniamo subito classificati come figli di un'epoca pericolosa che ha scardinato valori e meriti in nome di un azzardato libertarismo. Eppure, l'ammonizione di Gesù è chiara: si possono fare cose buone e sante ed essere figli dell'iniquità, perché l'obbedienza a Dio non combacia con le convenzioni consolidate, ma è frutto di ricerca costante, nella libertà.
Codificare la volontà di Dio nei valori del passato significa pronunciare il nome di Dio inopinatamente. Paolo, il fariseo figlio di farisei, non intende sconfessare la tradizione dell'obbedienza ai precetti, sostituendola con una esoterica concezione della fede, che oggi potremmo chiamare radical-chic: la libertà non si gioca in estenuanti discussioni su cosa sarebbe meglio fare e come sarebbe meglio farlo, ma sempre e solo nella decisione di "mettere in pratica tutte le leggi e le norme che oggi io pongo dinanzi a voi".
Come Gesù, anche Paolo ha capito che i comandi di Dio, la scelta per la benedizione o la maledizione, sono fortemente legati all'oggi di Dio: di fronte alla conversione dei pagani, come poteva Paolo non riconoscere che si trattava di una chiara manifestazione del fatto che la giustizia di Dio testimoniata dalla Legge e i Profeti si poteva manifestare anche indipendentemente dalla Legge? e, di fronte all'oggi messianico della sua missione, come poteva Gesù non riconoscere che fare la volontà di Dio chiedeva di scegliere lui come unica legge a cui obbedire?
Alla fine del discorso della montagna Matteo risponde con la parabola delle due case alla prevedibile perplessità dei suoi cristiani venuti dal giudaismo, che inevitabilmente si domandavano perché l'ascolto delle parole di Gesù e la traduzione di esse nella pratica dovessero essere ormai considerate la volontà di Dio. La "grande rovina" a cui essa fa riferimento è chiara allusione al giudizio finale, al momento decisivo in cui l' ''oggi'' di Dio coincide ormai con la pienezza del tempo. In Gesù, l' ''oggi'' di Dio coincide con il giudizio finale e l'obbedienza, irriducibile ormai a qualsiasi codice, è benedizione messianica.
(commento di Marinella Perroni, docente di N.T.)
IX Domenica del Tempo ordinario (A)
ANNO A - 6 marzo 2011