Seguendo uno stile del tutto proprio, Matteo costruisce il suo vangelo alternando tra loro una sezione narrativa e un grande discorso di Gesù. Per questo il primo vangelo è stato chiamato il pentateuco matteano, anche per sottolineare con forza lo stretto legame dell'evangelista con la grande tradizione biblica, che costituisce per lui la condizione stessa per poter cogliere alla luce della vittoria di Dio operata nella risurrezione il senso della vicenda di un profeta e di un taumaturgo messo ingiustamente a morte. Per Matteo, la forza del compimento sta proprio nella capacità di cogliere il senso delle promesse. VITA PASTORALE N. 1/2011
IV Domenica del Tempo ordinario
Sof 2,3;3,12-13
1Cor 1,26-31
Mt 5,1-12a
LE OTTO PAROLE CHE
ANNUNCIANO IL REGNO
All'inizio del primo grande discorso, quello che suggella la prima parte dell'attività di Gesù in Galilea (cc. 5-7), Matteo colleziona in un insieme carico di grande forza espressiva otto benedizioni pronunciate da Gesù. La proclamazione solenne di otto parole di beatitudine deve far entrare nello spirito della legge del Regno. I poveri in spirito, quelli che sono nel pianto, i miti, quelli che hanno fame e sete di giustizia, i misericordiosi, i puri di cuore, gli operatori di pace e i perseguitati: diversamente da Luca, Matteo non insiste su nessuna maledizione, ma la sua composizione del gruppo di coloro che sono chiamati a far parte del Regno non è certamente meno efficace. Fino al punto che proclamare il vangelo delle beatitudini arriva a ingenerare una sorta di imbarazzo.
Eppure, se ancora oggi Gesù di Nazaret attira l'attenzione di molti, la sua figura interessa, il suo messaggio colpisce, la sua morte inquieta, è certamente anche grazie a quelle otto benedizioni che annunciano il grande e definitivo riscatto per tutti coloro che la vita sembra aver escluso da ogni forma di felicità. Come le tavole della Legge, che Mosè aveva ricevuto da Dio per fame dono agli israeliti, hanno riunito la gente dell'elezione in un unico popolo di Dio, così la legge del Regno, promulgata da Gesù sul monte, porta la storia della promessa divina alla sua realizzazione. I cristiani di Matteo sono certamente in grado di capire tutto questo e di interrogare la tradizione per comprendere come Gesù, non solo non abbia abrogato neppure un apice della Legge, ma l'abbia portata alla sua realizzazione più radicale. È possibile dare conto di questa radicalità in un mondo che, almeno a parole, cerca di sollevarsi da ogni forma di afflizione? Sul palazzo della Fao, a Roma, campeggia un'enorme scritta: «Lotta contro ogni povertà». Non si tratta di discutere lo scarto tra le parole e i fatti, le intenzioni e le realizzazioni: di queste parole malate sono pieni i salotti di coloro che cercano solo alibi alla propria ignavia. Né, tanto meno, si tratta di mettere in discussione tutte le forme di Welfare, organizzato o meno, che, anzi, dovremmo considerare diritto di tutti. Servirsi delle beatitudini per discorsi moralistici significa abusarne violandone il significato profondo.
È necessario spingersi più avanti: c'è un'aspirazione profonda alla vita che spinge gli esseri umani a uscire da ogni forma di schiavitù, a superare sofferenza e ingiustizia, a credere in una liberazione sempre possibile, se non per se stessi, almeno per i propri figli. Una liberazione da ogni negazione della vita, perfino dalla morte. E il Dio di Israele, nel quale Gesù di Nazaret ha riposto totalmente la sua fiducia, è il Dio della liberazione, di ogni liberazione, perfino dalla morte. Da buona pedagoga, però, la storia ha insegnato al popolo che Dio si è scelto che gli oppressi fanno presto a diventare oppressori, i poveri a diventare sfruttatori, gli umili a trasformarsi in prepotenti. Anche dentro il popolo che Dio si è scelto, solo un piccolo resto, come dice il profeta Sofonia, è disposto a cercare Dio sempre.
In questo mondo, non in un altro, lì dove i poveri vengono finalmente riconosciuti come eredi del Regno, o quelli che piangono vengono consolati o i mansueti vengono considerati i veri vincitori. Solo chi è affamato e assetato di giustizia può capirlo e per questo è benedetto e solo chi arriva a farsi servo della pace, perché arriva a perdonare ai nemici, può riconoscersi come figlio di Dio. Perché la legge del Regno sta nell'assoluta simmetria tra misericordia ricevuta e misericordia donata.
I cristiani a cui Matteo si rivolge sanno molto bene che tutto questo costa il prezzo della persecuzione. La storia di Dio ha proceduto sempre anche attraverso questo. E mai Dio è stato sconfitto. Anzi la persecuzione del suo stesso figlio ha mostrato che la vittoria gli appartiene e nessuno può toglierla dalle sue mani. Chi ascolta le beatitudini sa che colui che le ha pronunciate è stato appeso a una croce, ma sa anche che è risorto il terzo giorno. Già pochi anni dopo la morte di Gesù, Paolo capisce che perfino la predicazione della croce può tradursi in arrogante prepotenza. La storia successiva gli ha dato ragione: i profeti avevano parlato di lance che si tramutavano in falci e i cristiani sono capaci di tramutare le croci in spade. Vantarsi nel Signore è tutt'altra cosa che servirsi del Signore a motivo del proprio vanto. Gli uomini e le donne fedeli alla legge delle beatitudini, gli uomini e le donne del Magnificat, non mancheranno mai. Sono il piccolo resto che Dio ha scelto per confondere i forti e i potenti. Vivere le beatitudini è forse meno difficile di quanto si pensi. Certamente è meno imbarazzante che non parlarne. Soprattutto, però, è più bello.
(commento di Marinella Perroni, docente di N.T.)
IV Domenica del Tempo ordinario (A)
ANNO A - 30 gennaio 2011