I testi liturgici della terza domenica del tempo ordinario non consentono di rintracciare una qualche linea di evidente continuità. Se il brano del vangelo di Matteo ci colloca all'inizio del ministero pubblico di Gesù, richiamando con forza, almeno in parte, la profezia di Isaia annunciata nella prima lettura, il duro monito di Paolo alla comunità di Corinto ci chiede invece di considerare che la mancanza di unità rappresenta una delle colpe originarie nella vita delle Chiese. Situa così le nostre assemblee liturgiche al cuore della settimana di preghiera per l'unità dei cristiani che, nell'emisfero nord del pianeta, viene celebrata da più di cento anni nel periodo compreso tra la festa della cattedra di Pietro e quella della conversione di Paolo. VITA PASTORALE N. 1/2011
III Domenica del Tempo ordinario
Is 8,23b-9,3
1Cor 1,10-13.17
Mt 4,12-23
UN MODO NUOVO
DI LEGGERE LA STORIA
In questi anni, da popolo di emigranti, l'Italia è diventato Paese di immigrazione, e comincia a farsi strada anche nelle nostre coscienze una certa sensibilità per il pluralismo confessionale e per la diversità religiosa. Tutti quelli che cercano pace e lavoro nel nostro Paese chiedono luoghi di culto: c'è una profonda verità in questo, ma noi, afflitti da una sorta di "grossolanità" religiosa, non siamo più capaci di coglierne il senso. Né lo scandalo della divisione tra cristiani ci appare ancora in tutta la sua crudezza, come avviene invece nelle Chiese di missione o nelle Chiese in cui la logica della maggioranza deve cedere il passo a strategie di convivenza ecclesiale o, addirittura, di sopravvivenza religiosa.
Paolo coglie molto bene il vero problema: il pluralismo apostolico, che ha impresso una forte spinta missionaria alla predicazione kerigmatica dei primi tempi, molto presto viene contaminato dal personalismo apostolico e dalla tendenza a riconoscersi in un leader piuttosto che in una condivisa confessione di fede e in un comune programma di vita. Dal canto suo, la millenaria tradizione cristiana attesta quanto sia sempre stato difficile per i cristiani riconoscersi nella reciprocità, benedirsi nella diversità, confermarsi nella testimonianza davanti al mondo. Lo è ancora oggi, perfino tra le nostre comunità o dentro le nostre stesse comunità.
Con il brano del vangelo ha inizio la lettura liturgica continua del primo dei vangeli che la Chiesa considera canonici. Fin dai primi tempi, la comunità cristiana ha capito che, per radicare se stessa nella verità, è necessario sempre ripartire da Gesù, dalla narrazione della sua vita e della sua missione, dal significato della sua morte, dall'esperienza della sua risurrezione. Per questo sono nati i vangeli. Per questo l'evangelizzazione non riguarda solo le genti lontane, ma è necessità irrinunciabile e permanente.
Le poche frasi con cui Matteo introduce l'attività pubblica di Gesù sono un vero e proprio compendio teologico da cui è possibile ricavare la specifica prospettiva dell'evangelista e della sua Chiesa. Da una parte, il riferimento al vincolo di continuità tra Gesù e Giovanni e il ricorso a una citazione di compimento presa dagli oracoli messianici di Isaia rivelano quanto la giovane comunità cristiana si sentisse attaccata all'antica tradizione giudaica. D'altra parte, il fatto che l'attività di Gesù cominci con una chiamata attesta che sta nascendo qualcosa di totalmente nuovo. Si tratta, infatti, di una chiamata missionaria. Aprirsi coraggiosamente alla missione verso tutti i popoli senza per questo rinunciare alla propria eredità giudaica: questa la sfida all'evangelizzazione che si trova davanti Matteo.
Più di ogni altro particolare, l'espressione "Galilea delle genti", che Matteo mutua da Isaia, inquadra e definisce l'intenzione dell'evangelista rivelando appieno la prospettiva specifica che egli intende conferire alla sua narrazione. Non si tratta di un particolare geografico, come la narrazione che da quel momento prende le mosse non è un racconto biografico, ma un racconto kerigmatico. La profezia del regno chiede di convertirsi all'accoglienza dei pagani. Intesa non come tradimento della promessa biblica, ma come sua piena realizzazione. Secondo Matteo Gesù non ha mai accettato di svolgere la sua missione al di fuori di Israele, si è sentito Messia di Israele, anzi, ha esplicitamente proibito ai suoi discepoli di andare a predicare al di là dei confini della Palestina.
Dopo il disastro dell'anno 70, un discernimento però si impone: Matteo capisce il senso del dramma della distruzione di Gerusalemme ad opera dei romani che ha definitivamente cambiato il volto del giudaismo. Proprio dalla Galilea, divenuta la terra in cui hanno trovato rifugio i Giudei e quindi la terra dell'Israele di Dio, viene allora la grande sfida. Alla fine del vangelo, proprio in Galilea, il Risorto affiderà agli undici discepoli la missione verso tutte le genti (28,16-20), esattamente come la missione del profeta di Nazaret aveva avuto inizio nella Galilea delle genti.
Subito dopo, l'evangelista cambia registro passando alla composizione di una scena, tanto incisiva quanto emozionante. L'annuncio del regno di Dio non è pronunciato nell'aria, l'invito alla conversione non resta un generico ammonimento morale. Raggiunge persone precise e chiede obbedienza immediata e radicale a un progetto. Essere discepoli non significa tanto o soltanto l'accettazione di uno stile di vita. Significa soprattutto l'accettazione di un modo di guardare alla storia.
(commento di Marinella Perroni, docente di N.T.)
III Domenica del Tempo ordinario (A)
ANNO A - 23 gennaio 2011