Alla composizione della cornice dentro la quale, durante il tempo ordinario dell'anno liturgico, andrà incastonata la lettura continua del vangelo di Matteo manca ancora un tassello. Nulla, nella storia di Dio, acquista significato senza la testimonianza degli uomini. Il tema della testimonianza, fondamento di tutta la predicazione apostolica, riceve nel quarto vangelo un'importanza particolare già fin dalle prime battute. Per l'evangelista Giovanni il battesimo di Gesù esce dall'ambiguità degli avvenimenti storici e può essere raccontato come momento della solenne teofania di Dio solo perché Giovanni il Battista ha "visto e testimoniato". VITA PASTORALE N. 1/2011
II Domenica del Tempo ordinario
Is 49,3.5-6
1Cor 1,1-3
Gv 1,29-34
IL MARTIRIO, FIGURA
DELLA TESTIMONIANZA
Il ciclo di Avvento-Natale ha radicato la narrazione dell'evangelo, cioè del ministero di Gesù e della sua morte, nelle promesse antiche e nell'attesa messianica di Israele. La paziente pedagogia di Dio lungo tutta la vicenda di Israele ha insegnato al suo popolo a saper riconoscere la teofania di Dio nella storia. I fatti restano complessi e ambigui, gli avvenimenti della vita possono nello stesso modo allontanare da Dio o avvicinare a Lui, l'esperienza della sconfitta e della morte può minare la fede o rafforzarla. Solo lo spirito di profezia può consentire a coloro che credono di entrare nel mistero della rivelazione divina e, come Mosè e come tutti gli uomini e le donne che Dio ha scelto per sostenere il suo popolo nella fede, di «vedere l'invisibile». La testimonianza di Giovanni aggregherà intorno al Messia alcuni dei suoi primi discepoli, nucleo iniziale della comunità di Gesù, ma anche della comunità di tutti coloro che, lungo i secoli, «vedranno e crederanno".
Il Dio di Israele ha scelto di affidarsi alla testimonianza degli uomini. Di tutti e di alcuni. Il prologo della lettera ai Corinzi, da questo punto di vista, è eloquente. La chiamata di Dio alla santità è per tutti. Paolo insiste con decisione: se lui è stato chiamato a svolgere un compito particolare, alla santità, invece, sono stati chiamati tutti. La santità non è conquista umana, ma dono che Dio non nega a nessuno di coloro che chiama. E la santità prevede la testimonianza fino al dono della stessa vita. In questi ultimi anni, la questione del martirio tanto di cristiani che restano anonimi tanto di figure note all'opinione pubblica si è imposta in tutta la sua crudezza. Colui che, nel secondo canto del servo di YHWH che allude al compimento messianico, Isaia presenta con i tratti luminosi della vittoria e della gloria, è colui sul quale Giovanni ha visto scendere lo Spirito di Dio, e che mostra già, fin dall'esordio della sua missione, le stigmate del dono della vita. Né sarà diversamente per Giovanni, che ha preteso che anche i potenti di Israele venissero raggiunti dalla chiamata a conversione, o per Paolo, che ha fatto dell'annuncio del Vangelo la grande passione della sua vita.
Per il quarto evangelista, Giovanni il Battista non svolge perciò soltanto il ruolo di precursore. Egli è il primo testimone della figliolanza divina di Gesù perché pone Gesù come punto di non ritorno tra un prima e un dopo, come discrimen tra il prima dell'attesa e il dopo della salvezza, come culmine della profezia di Israele. Per l'ultimo grande profeta di Israele riconoscere in Gesù l'agnello di Dio significava veder confluire in lui la liberazione da ogni schiavitù in vista di un'alleanza con Dio ormai eterna. Nell'agnello Israele ha ripetutamente rappresentato la sua fede in un Dio che non ha mai voluto il sacrificio di vite umane, perché è il Dio che ha voluto tutelare perfino Caino. Dono condiviso di grazie, ma anche offerta che assume su di sé il grande mistero dell'infedeltà nei confronti dell'alleanza, l'agnello diviene figura cristologica: il Figlio di Dio non è una possibile divinità che stabilisce con gli esseri umani un contatto mistico ma, radicato nella storia del suo popolo, la porta a compimento come "eucaristia", come rendimento di grazie.
La testimonianza degli uomini e delle donne di Dio non è affermazione di sé, ma rendimento di grazie. Essa è il filo rosso che, dalla storia biblica a quella extrabiblica, consente alla fede nell'elezione di Dio di tradursi in fedeltà. Per questo fin dall'inizio i cristiani hanno considerato pressoché sinonimi martirio ed eucaristia. Viene alla mente il recente film Uomini di Dio - titolo che non rende pienamente giustizia dell'originale francese Des hommes et des dieux - e l'ultimo bicchiere di vino con cui i monaci cistercensi del monastero di Tibhirine, nell'Atlante algerino, uccisi da una furia assassina mascherata da fede religiosa, assaporano con gratitudine la gioia di dare la vita per coloro che amano. La vicenda di quel piccolo gruppo di uomini fedeli va oltre precisi confini geografici o politici, perché colonizzazione, sopruso e vendetta non sono prerogative di alcuni popoli o di alcuni momenti della storia. E gli "dei" per i quali gli uomini sono disposti a togliere la vita sono sempre gli stessi, sotto ogni latitudine e dentro qualsiasi regime politico o qualsiasi tradizione religiosa.
Il Dio di Gesù Cristo, a cui quel piccolo gruppo di monaci cistercensi che ha vissuto sulle montagne del Maghreb, povero tra i poveri, aveva giurato fedeltà, non chiede di togliere la vita. Chiede di darla. E, se necessario, anche fino alla morte. Il martirio è la forma piena della testimonianza. Non può essere cercato, può solo essere accolto. Non aggiunge nulla, solo porta a compimento.
(commento di Marinella Perroni, docente di N.T.)
II Domenica del Tempo ordinario (A)
ANNO A - 16 gennaio 2011