La celebrazione eucaristica (I)



Il diaconato in Italia n° 163
(luglio/agosto 2010)

TEOLOGIA BIBLICA

La celebrazione eucaristica (I)
di Luca Bassetti



La celebrazione dell'Eucaristia, è la sorgente purissima di tutta la nostra fede, contatto vivo e fontale con il mistero stesso dell'amore di Dio che, in essa, si riversa nella nostra vita trasformandola in un processo efficace di divinizzazione.
L'Amore che dilata e squarcia il cuore del Padre nel compiacimento commosso per la kenosi del Figlio è lo stesso amore che trafigge il cuore del Figlio, facendo sgorgare da esso fiumi di tenerezza e di misericordia per l'uomo peccatore (Gv 19,30.34), nel cui cuore, trafitto nel dolore del pentimento per Colui che ha trafitto (Zc 12,10; Lc 23,48; At 2,37-38) è riversato lo stesso amore divino: lo Spirito Santo che ci è stato donato (Rm 5,5). La celebrazione eucaristica è la partecipazione più piena a tale sorgente dell'amore trinitario. In essa rivive infatti l'atto supremo della donazione che il Figlio ha fatto della sua vita, secondo quanto ha visto fare dal Padre stesso (Gv 5,19-30).
Egli istituisce questo segno efficace del suo amore radicalmente oblativo nel momento in cui l'intensificarsi del rifiuto degli uomini si fa decisa volontà di togliergli la vita (Mt 26,2-5; Mt 26,14-16.20-25; Gv 13,2.21-30). Il Figlio di Dio non lascia che la vita gli sia strappata, ma decide Egli stesso di donarla per amore spezzando il pane come suo corpo e versando il vino come suo sangue (Mt 26,26-29). Da questo evento storico-liturgico il mistero pasquale di morte e risurrezione lascia trasparire tutta la sua straordinaria energia di amore e si trasfigura di una nuova luce piena di speranza: il dono ha soppiantato il possesso, la vita ha vinto la morte, l'amore ha sconfitto l'odio1.
Il senso ed il valore dell'Eucaristia celebrata lo si può comprendere in profondità solo vivendolo, accettando di essere trasportati dalla sua corrente di amore e lasciandosi coinvolgere dalla dinamica della donazione che in essa si compie.
Per poter tuttavia estendere alla nostra povera intelligenza le ragioni ineffabili del cuore credente (credo ut intelligam dicevano i padri) e raggiungere un minimo di oggettivazione e comunicabilità del mistero che lì attingiamo alla sua sorgente, è necessario ricondurre la celebrazione eucaristica alla sua più autentica radice biblica, riassociandola alla sua duplice fontale derivazione dalla pasqua di Gesù e da quella di Israele. Se nella pasqua del Signore si attinge alla sostanza più intima, decisiva ed essenziale che pervade l'azione eucaristica ed in essa si comunica, la liturgia pasquale di Israele, offre invece la grammatica fondamentale ed il codice decisivo per la sua corretta e vitale comprensione: è necessario dunque prendere anzitutto in considerazione quest'ultima remota radice.

La liturgia pasquale di Israele
La celebrazione della pasqua riconduce al cuore della memoria fondativa della fede d'Israele, contenendo in sé la totalità delle evoluzioni e differenziazioni liturgiche successive, che ne assumono e ne sviluppano singoli aspetti in tre principali direzioni: le berakot (benedizioni) famigliari, soprattutto della mensa, il culto del tempio e la liturgia sinagogale.
La struttura di berakah della famiglia riunita a mensa assume e sviluppa l'aspetto di liturgia famigliare della pasqua, all'interno di un pasto consumato tra i membri della stessa famiglia in clima di festa e di gratitudine a Dio; la tipologia cultuale del tempio dilata, per parte sua, l'aspetto immolativo-sacrificale legato all'elemento principale del pasto pasquale (l'agnello offerto al tempio e consumato in famiglia); la prassi liturgica della sinagoga ne assume ed accentua, infine, l'elemento haggadico della narrazione memoriale, a cui risponde la preghiera salmica.
Una considerazione della liturgia di Israele centrata sulla pasqua e sui suoi distinti sviluppi liturgici offre dunque il necessario codice d'accesso alla comprensione della celebrazione eucaristica, la cui sostanza è tuttavia in relazione all'evento dell'amore, con cui Gesù ha amato i suoi sino alla fine (Gv 13,1).
La vita dell'ebreo osservante è costellata di numerose, brevi benedizioni che attraversano tutta la sua giornata. La prassi ricorrente della berakah non si motiva solo in termini di stretta osservanza del dovere di lodare il nome del Signore dal sorgere del sole al suo tramonto (Sal 113,3) o della necessità di ricordare i suoi precetti dal levarsi al coricarsi (Dt 6,7), ma si fonda soprattutto sulla potenza decisiva e radicale della parola creatrice che, pervadendo tutte le cose della sua vitalità luminosa sorgiva (Gen 1), ne determina la sostanziale bontà di fruizione, bellezza e benevolenza2.
È soprattutto nel livello cellula vitale primordiale creata che si esprime la lode al Signore per la bontà sostanziale del creato, generata dalla parola di Dio e riconosciuta già dal suo compiacimento originario: la famiglia, specie quando è riunita attorno alla mensa, luogo in cui si alimenta la sua vita, non solo biologica, ma relazionale, è il contesto primo ed essenziale in cui si leva la benedizione al creatore.
La benedizione - nel suo senso biblico alquanto differente da una nostra prassi liturgica che la invoca come azione discendente da Dio alle cose in nostro possesso o alle situazioni da noi vissute, funzionalmente ad una protezione da ottenere o ad un esito felice da conseguire - è invece, da parte dei soggetti beneficiari, un moto ascendente di gratitudine che, passando attraverso i beni provvidenzialmente messi a loro disposizione, sente il bisogno di dirigersi verso l'alto, alla loro fonte ultima e decisiva: l'amore di Dio creatore. Nella visione biblica, ogni umana relazione, compreso il rapporto con i beni, è segnato e attraversato dalla struttura pervasiva della benedizione.
Con la propria berakah l'uomo risponde alla bontà originariamente effusa su ogni cosa dalla parola creatrice di Dio, riconoscendone il triplice graduale livello di fruizione, bellezza e benevolenza. Il livello primordiale della benedizione è anzitutto di fruizione, si sprigiona a partire dall'uso concreto dei beni vitali, del cibo e dell'acqua, della casa e del vestito, senza i quali verrebbe a minacciata la stessa dimensione biologica del vissuto umano.
Essa si estende poi alla bellezza del reale, al suo aspetto più marcatamente gratuito, che va oltre la fruizione diretta dei beni vitali per coinvolgere e contemplare il valore della relazione con tutto l'esistente: dalle cose nella loro godibilità estetica fino alle persone nella loro unicità spirituale. La gradualità ascendente della berakah raggiunge il suo livello più significativo ed intenso nel momento in cui si esprime come gratitudine per una benevolenza immeritata e riconosce la totale gratuità dei beni e delle relazioni messe a sua disposizione, attribuendole alla misteriosa benevolenza di Colui a cui tutto deve. La famiglia è il luogo primo di espressione della triplice motivazione della benedizione: grazie ad essa si fruisce infatti dei beni vitali, al suo interno si gode delle relazioni più intense, in essa si riconosce infine l'azione di una benevolenza immotivata.
Nella vita famigliare è proprio la mensa il contesto più decisivo della bontà fruita, goduta ed accolta come benevolenza: ci si riunisce attorno ad essa, infatti, non solo per assumere il cibo, ma anche per godere la gioia e la bellezza di relazioni conviviali, sino a riconoscere la loro gratuita ed amorevole provenienza dalla radicale benevolenza divina.
Allo svolgimento del pasto si legano tre principali benedizioni: quella per il dono della creazione, quella per la grazia della redenzione e quella, in forma di supplica per il compimento di ogni bene donato all'uomo nel futuro della salvezza escatologica. Tra tutti gli elementi costitutivi della mensa l'attenzione dell'ebreo credente si focalizza sul pane, nel suo valore riassuntivo del triplice livello di bontà da riconoscere nella berakah: il pane è infatti bene primario di fruizione vitale, bene da frazionare nel godimento di una gioiosa condivisione, segno di una benevolenza che ha pervaso di sé la fatica del lavoro umano come segno concreto di amore oblativo. Tutte le berakot della vita famigliare trovano dunque il loro nucleo fondante e ricapitolativo nella berakah sul pane spezzato e condiviso a mensa: «Benedetto tu, Signore, Dio nostro, Re dei secoli, che fai produrre il pane alla terra». Già da un punto di vista semplicemente antropologico, con puntuale riscontro anche biblico-teologico, il pane assume l'altissimo valore simbolico di indicatore di una vita donata, particolarmente all'interno delle relazioni intrafamigliari. Frutto del lavoro congiunto dell'uomo (dal campo lavorato e seminato sino alla farina) e della donna (dalla farina lavorata alla pagnotta posta sulla tavola) esso racchiude le energie consumate per amore e fatte dono di vita reciproco tra il marito e la moglie ed effusione congiunta di risorse vitali per i loro figli, a prolungare nel tempo, sino alla crescita compiuta, lo stesso atto di amore e dono di sé con cui li hanno generati.
A mensa è l'uomo che pronuncia la benedizione sul pane, ma solo ricevendolo come alimento compiuto dalle mani della sposa che, insieme ai figli, ne attende lo spezzarsi e si fa tramite per la sua totale distribuzione. Ministerialità congiunta dell'uomo e della donna a servizio del dono reciproco della vita e della sua estensione ai figli. In tale significativa dinamica di amore la berakah ha un'indiscutibile funzione chiave.
Bene-dire Dio con tutta la gratitudine del cuore significa attribuire il bene della fruizione e del godimento alla sua esclusiva benevolenza, riconoscendo che i beni posti tra le mani dell'uomo, insieme con il bene di tutta la sua vita, pur frutto di lavoro faticoso, non possono essere trattati come possesso esclusivo del singolo: essi appartengono ad un Altro, manifestano la sua infinita liberalità e chiedendo di essere condivisi con generosità analoga a quella di Colui che li ha donati. La dinamica del dono interna alla vita della famiglia, particolarmente manifesta attorno alla mensa e recepita in modo intensificato nel pasto pasquale, si prolunga e si dilata nell'istituzione dell'offerta cultuale3.




Note:

1 Sulla capacità sorgiva della liturgia eucaristica di riversare l'amore trinitario nel cuore dell'uomo, come forza di divinizzazione che si estende il suo potere trasformante ad ogni aspetto della vita e della creazione, si vedano le straordinarie riflessioni di J. Corbon, Liturgia alla sorgente (1980), Qiqajon-Bose, Magnano 2003, il cui affiato mistico e mistagogico molto le avvicina all'opera di N. Cabasilas, La vita in Cristo, UTET, Torino 1971.
2 Si veda in proposito l'illuminante articolo di Carmine Di Sante, Antropologia della benedizione. Dal soggetto «bene-detto» al soggetto «bene-dicente», in Rivista biblica 71 (1994) 403-419.
3 Sulla struttura liturgica della berakah famigliare in riferimento allo sviluppo della celebrazione eucaristica si veda L. Bouyer, Eucaristia. Teologia e spiritualità della Preghiera eucaristica (1966), Elle Di Ci, Leumann (TO) 1983, p. 89-98 e p. 106-114; e C. Di Sante, L'Eucaristia terra di benedizione. Saggio di antropologia biblica, EDB, Bologna 1987.




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