Adeguare il servizio ai tempi



Il diaconato in Italia n° 163
(luglio/agosto 2010)

TESTIMONIANZA


Adeguare il servizio ai tempi
di Roberto Bernasconi

In calce Il midollo della politica,
con citazioni di mons. Mario Toso,
segretario del Pontificio Consiglio della giustizia e della pace




Alcune problematiche emergenti
Attraverso questo servizio alla mia Chiesa Diocesana, sto riscoprendo il valore del ministero sia riguardo al ruolo che deve avere nella comunità ecclesiale, che al rapporto del diacono con la quotidianità, la famiglia, il lavoro, la dimensione sociale e politica. Nell'esercizio del nostro ministero ci sono delle costanti a cui non si può rinunciare: innanzitutto la preparazione teologica, lo studio della Parola e dei documenti del Magistero, che ci introducono e sviluppano la tematica ministeriale, che è basilare e sta alla radice del nostro cammino, ma questo non basta.
La giornata di un buon diacono non è fatta solo di un serio cammino di studio, spirituale e di preghiera, che pure è indispensabile, non è nemmeno una riscoperta del ministero legata a un percorso rivendicativo, che spesso ci vede impegnati all'interno delle nostre comunità a trovare quella visibilità che ci permetta di far capire il valore del nostro ministero per il servizio a tutta la comunità. Permettetemi questa sottolineatura: tante volte questa nostra rivendicazione ci allontana, più che avvicinarci, dalle nostre comunità, perché in questo nostro voler distinguerci nel ruolo che ci compete rischiamo di creare ulteriori steccati piuttosto che abbatterli, rischiamo di diventare non uomini di servizio, ma uomini da dover servire.

Le nostre comunità sono poco incisive sui problemi vivi della gente
La riscoperta del mio ministero diaconale la sto realizzando soprattutto attraverso la vita vissuta, che mi ha messo in condizione di stare in stretto contatto, quindi di condividere, di far mia, la vita di tanti fratelli che hanno una esistenza travagliata che è difficile da condividere, perché faticosa, perché complessa, problematica, perché fatta di tante cadute, perché ci fa avvicinare persone di cultura o di religione diversa, ma bisognose di essere capite, ascoltate. Sento il bisogno di accogliere e di condividere queste esistenze, perché sono la vita di uomini e donne che stanno inserite nel grande progetto di Dio sull'umanità. Dio si manifesta attraverso la vita di tutti gli uomini e soprattutto di chi è ultimo, di chi è dimenticato, di chi è emarginato; sono le difficoltà, le fatiche, ma anche le gioie date da questa condivisione che rendono visibile e attuale questo disegno di Dio per gli uomini e questa condivisione è molto preziosa in questo tempo in cui sempre più spesso dimenticandoci degli uomini ci si dimentica di lui. Questo patrimonio dato dalla consuetudine con l'uomo, deve essere una costante per noi diaconi e deve essere speso a favore di tutta la comunità. Il rischio concreto che le nostre parrocchie vivono nel nostro tempo è quello di perdere il contatto con la realtà, con la quotidianità , con l'uomo comune a favore di una chiusura in presunte certezze che svuotano di senso tutto quello che la comunità a livello liturgico, di catechesi, ma anche di servizio caritativo riesce ad esprimere, perché fondamentalmente non sono rivolte all'uomo. Le nostre comunità diventano così poco significative, poco incisive sui problemi reali vissuti dalla gente, si limitano spesso a creare delle strutture di aiuto, di distribuzione di viveri o altri generi, ma quasi mai si sentono impegnate in un cammino di approfondimento, di conoscenza delle povertà, che porti un contributo concreto di idee e di strade da percorrere soprattutto a tutte quelle strutture civili che sono preposte a questo cammino: penso agli assessorati ai servizi sociali, a tutti quei tavoli tematici dei vari piani di zona.

Una diaconia rallentata nel far fronte ai cambiamenti
Vivendo in prima persona queste problematiche vi posso dire che sempre più spesso oggi Comuni, Circoscrizioni, Province tendono a delegare alla carità tutta una serie di interventi assistenziali e di accoglienza che sono dovere delle istituzioni, dello Stato. La prima azione da compiere è quella di essere attenti ai cambiamenti che stanno avvenendo nella nostra società. Abbiamo assistito in questi anni ad un cambio repentino nel nostro modo di vivere: da una società monoculturale, da comunità stanziali e, nella maggior parte dei casi, da comunità che erano costrette a far emigrare gente in cerca di lavoro, la nostra è diventata nel giro di pochi anni una società capace di produrre ricchezza grazie ad uno sviluppo industriale notevole e soprattutto una società multiculturale e multirazziale, perché per poter sostenere lo sviluppo ha avuto bisogno di accogliere gente che lavorasse e ha attirato comunque una massa di persone che di fronte al miraggio di un lavoro sicuro hanno lasciato i loro paesi in cerca di fortuna.
Di questo cambiamento vi posso dare anche alcuni dati, alcune tendenze che attraverso la Caritas noi possiamo avere, sono dati che ormai sono noti a tutti e non sono da usare solo per capire la tendenza, per renderci conto dove possiamo andare, ma servono per un approfondimento che ci aiuti a valutare le conseguenze pratiche che questo cambiamento porta per la vita di tutti noi e delle nostre comunità, dei nostri paesi.
È un cambiamento epocale quello che è in atto e nonostante tutti gli sforzi illuminati dei nostri politici non si può fermare. Sono sotto gli occhi di tutti i numeri di questo cambiamento che è strutturale e inarrestabile: ormai il dieci per cento della popolazione in alcune zone del nostro paese è costituito da persone straniere. Nella città di Como esiste una parrocchia, che noi chiamiamo "fantasma", che è composta da quattromila persone extracomunitarie che professano la nostra fede, queste persone, cristiani che vivono nel tessuto della nostra città, difficilmente sono accolte all'interno delle parrocchie di residenza anche se nel caso di alcune parrocchie (vedi alcune periferie) sono la maggioranza dei parrocchiani. Questa non accoglienza è anche più grave se si pensa alla modalità che noi intendiamo per accoglienza.
Noi intendiamo per accoglienza far dimenticare a questi nostri fratelli la loro provenienza, tutto il loro bagaglio culturale e vorremmo costringerli per integrarsi ad omologarsi alla nostra cultura, al nostro modo di pensare e di essere. Nella nostra città le persone che professano un'altra religione sono tante, faticano a trovare il modo di poter esprimere il loro credo; noi impediamo loro il più delle volte di potersi riunire, di poter pregare (paradossalmente questi divieti alimentano, ad esempio nei musulmani, il fondamentalismo). Nella nostra città che è di ottantamila abitanti, e che con i comuni limitrofi raddoppia, che è posta in una situazione particolare in quanto città di confine, abbiamo ancora settanta persone che tutte le notti dormono all'addiaccio in rifugi di fortuna; le nostre mense sfornano in un anno più di sessantamila pasti, nei nostri Centri di ascolto cittadini avviciniamo quasi duemila persone all'anno, 60% delle quali sono extracomunitarie.

Cosa intendiamo per integrazione?
Da questa analisi noi comunità cristiana dobbiamo saper trarre delle conseguenze operative, dei cammini percorribili soprattutto per i nostri Comuni, le nostre Province, che non possono sempre far finta di non conoscere, di non vedere o di risolvere tutto espellendo chi non è gradito, chi non è funzionale alle esigenze della nostra società. In questo ultimo periodo sembra che nella nostra Regione la parola d'ordine sia sgombero, espulsione, emarginare e ghettizzare, tener d'occhio e peggio sopportare la vicinanza di chi è in grado di fare i lavori che a noi non piacciono perché troppo sporchi o faticosi. Dobbiamo avere il coraggio di scelte coraggiose, di scelte illuminate.

Soppesiamo ancora differenze di ceto?
Le nostre parrocchie devono diventare luoghi accoglienti in cui l'attenzione massima deve essere data innanzitutto alla persona, qualunque sia la sua provenienza, il suo ceto. Attraverso il dialogo sincero che nasce da questa accoglienza le nostre comunità devono farsi carico dei problemi, delle aspettative, devono diventarne il portavoce, diventare luoghi dove la vita con i suoi problemi reali abbia la possibilità di confrontarsi con la Parola, con la dottrina sociale della Chiesa e il frutto di questo confronto siano proposte concrete che portino ad una civile convivenza. Pensate quanto sia importante per una civile convivenza la capacità che dovremmo avere di una conoscenza vera di chi per diverse ragioni sceglie di venire a vivere tra di noi. Pensate a che ricchezza potremmo cogliere se solo entrassimo in dialogo vero con queste persone. Vi posso dire per la mia esperienza che a questa ricchezza datami dalle persone che incontro giornalmente nel mio ministero in Caritas difficilmente rinuncerei. In questo mio servizio parto sempre dalla convinzione che un po' tutti noi abbiamo un difetto, che è quello di possedere una certa dose di onnipotenza; noi pensiamo di riuscire a risolvere i problemi del mondo intero, invece mi ritrovo, ascoltando le esperienze di vita di queste persone che dalla vita hanno avuto così poco, a riscoprire la mia pochezza, la mia incapacità, la mia incostanza nel ricercare la verità e la giustizia, la mia fatica a condividere.

Mettendo a disposizione il tempo e l'amicizia
Tengo ben stretti quei privilegi che mi sono dati anche dal mio stato di vita e mi rendo conto che tutte le azioni che potrei intraprendere a favore di queste persone non valgono nulla se in me non si sviluppa la convinzione, sull'esempio delle persone che ascolto e che si affidano totalmente a me, di dover condividere, mettendo a servizio loro, tutte le mie ricchezze, non solo materiali, ma prima di tutto la ricchezza della fede, la ricchezza della amicizia, la ricchezza della appartenenza ad una comunità, ma soprattutto il sapermi mettere in confronto con loro non nascondendo tutte le mie fatiche, tutte le mie incongruenze, tutti i miei difetti.
Da questo atteggiamento di conversione personale, deve partire uno stimolo alle nostre comunità perché abbiano il coraggio di compiere scelte di conversione comunitaria. Il mio servizio alla carità mi ha fatto capire che uno dei compiti del diacono che è ministro della Parola e della Carità, è anche quello di essere ministro della soglia, ministro della accoglienza. Deve il diacono saper vivere questo suo ministero della soglia a nome e per conto della comunità, ponendosi al di fuori, sulla porta, aperto al mondo, ma con un occhio rivolto alla comunità che deve saper stimolare, che deve saper guidare e deve saper rappresentare in questa accoglienza e con un occhio al mondo dove gli uomini e le donne vivono e faticano e spesse volte, quando sono in difficoltà, si nascondono per paura, per pudore.

Le comunità vivono di accoglienza
Deve il diacono aiutare queste persone a trovare questa soglia ed è suo compito aiutarle a superarla, facendo intravvedere loro una comunità accogliente e pronta ad aprirsi alle loro difficoltà. Pensate a quale ricchezza potremmo attingere nelle nostre comunità da questa accoglienza disinteressata e aperta. Potremmo recuperare il concetto di sobrietà che in questa società del benessere e del consumo si è un po' perso. Solo attraverso la sobrietà vissuta sapremo cogliere tutte le povertà che stanno tra di noi, ma anche quelle che stanno al di fuori delle nostre comunità, quelle vissute dalle persone che la società emargina (extracomunitari, rom, persone con malattia psichica, rifugiati politici). La sobrietà vissuta ci deve far percorrere un cammino che ci porta a compiere una scelta di povertà; le nostre comunità devono essere capaci di percorrere questa via della povertà che ci permetterà di trovare il modo di dare un giusto valore alle cose, sapendo mettere al centro la persona, adottando stili di vita improntati alla condivisione, alla sobrietà, capaci di riconoscere la povertà subita e di aiutarla non partendo dal punto di forza della ricchezza, ma dalla condivisione che ci è data dalla virtù della sobrietà vissuta. Il nostro ministero è prezioso in questo percorso per far capire che la carità vera, quella che diventa indispensabile per le persone aiutate, non è la quantità delle cose che riusciamo a donare, ma è innanzitutto la condivisione concreta che riusciamo ad attuare attraverso scelte che implicano la nostra vita, il nostro uso delle risorse e dei beni.

Che idea abbiamo della nostra vita di fede?
Dobbiamo essere innanzitutto testimoni, prima che operatori di carità, sapendo accettare dagli altri, da chi accogliamo e aiutiamo, le ricchezze che loro ci possono donare e sono tante queste ricchezze che possono alleviare le nostre povertà. La ricchezza di relazione: noi non siamo più capaci di relazionarci in modo disinteressato, perché è bello e arricchente stare insieme. La ricchezza della gratuità: noi che ad ogni azione fatta diamo un prezzo, pretendiamo un tornaconto, anche il nostro relazionarci ha sempre un costo, non è mai gratuito, disinteressato. La ricchezza di umanità: attraverso il rapporto con le persone che ci chiedono aiuto si amplia la nostra conoscenza dell'uomo, abbiamo la possibilità di conoscere e di vivere culture e modi di vita diversi, di arricchire la nostra umanità, ma anche la nostra vita di fede che è sempre un po' legalista, un po' troppo legata alla idea di precetto, all'idea che noi siamo al centro di tutto, incapaci di accogliere l'altro, di confrontarci seriamente con il suo modo di intendere la vita, di vivere il rapporto con Dio. Si capisce allora come partendo dall'accoglienza delle povertà, che è accoglienza della persona, quale cammino di crescita possiamo compiere sia a livello personale che a livello comunitario.
Pensate a quale apporto possiamo dare alla comunità per la costruzione di una umanità che, liberata dalle incrostazioni della nostra società che la condizionano, possa rimettere al centro del suo essere l'uomo. Pensate a come sarebbe arricchente se piuttosto di combattere le diversità costituite dalla razza o dalla cultura fossimo capaci, attraverso il dialogo, di far nostre tutte le diverse positività che appartengono ad ogni cultura per farne patrimonio comune. La storia ci dice che noi siamo frutto delle diverse culture che nei secoli hanno influenzato il nostro territorio, è da stupidi e da miopi negare questo e richiamare la purezza della razza, è anticristiano.
Pensate a quanto bisogno hanno le nostre comunità vecchie di storia, ma anche vecchie di idee, di recuperare la freschezza di un cristianesimo giovane, frutto di conversione vissuta e non solo di tradizioni tramandate. Se provaste qualche volta a vivere una celebrazione o un momento aggregativo in una comunità di nuova evangelizzazione, ne capireste la differenza e il bisogno che abbiamo di recuperare questa freschezza. Noi, accettando il nostro ministero diaconale, ci siamo accollati una grossa responsabilità di cui dovremmo rendere conto a tutta la comunità. Il ruolo che noi possiamo svolgere e che ci è dato anche dal nostro stato di vita, che ci porta ad essere nel mondo, mentre contemporaneamente siamo ministri della Chiesa, è importante per questo nuovo rapporto tra le varie culture. Questo ruolo può aiutare la nostra Chiesa a scoprirsi Chiesa ministeriale, a diventare Chiesa che si rende consapevole di essere nel mondo non per dominarlo ma per mettersi a servizio di tutti gli uomini.


(R. Bernasconi è diacono della Parrocchia di Rebbio (Co)
e direttore della Caritas diocesana)




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Il midollo della politica
«Non solo da oggi la politica ha bisogno di redenzione e di riscatto», ma certo «la politica odierna è sempre più ridotta a lotta per il potere», le democrazie sono caratterizzate da «forme populiste e oligarchiche, massmediatizzate e leaderizzate, sempre meno partecipative e prive di universi assiologici condivisi». È l'analisi offerta da mons. Mario Toso, segretario del Pontificio Consiglio della giustizia e della pace, al seminario interdisciplinare presso la Pontificia Università Lateranense (marzo 2010), sul tema: "L'agire sociale alla luce della teologia della croce".
«Il rinascimento della polis, con una nuova stagione di uomini retti, che vivono nella coscienza l'appello al bene comune», ha detto mons. Toso, sarà possibile soltanto «ravvivando e rinforzando l'amore e la verità di cui la vita politica deve essere intessuta», cioè, sono «la piattaforma esistenziale su cui si fondano i pilastri della città e trovano nutrimento gli ethos dei popoli. Il dimorare nella carità e nella verità di Cristo è il principio del nuovo pensiero politico poiché dalla comunione con Dio derivano purificazione e liberazione per la ricerca del bene comune e coraggio e generosità per l'impegno a favore della giustizia e della pace».
«La carità nella verità - ha continuato mons. Toso - perfeziona la nativa capacità sociale e solidale aiutando a vivere più autenticamente la dimensione fraterna del nostro essere sociale, cioè l'essenza etica della vita della polis». Per il segretario del Pontificio Consiglio, con la sua enciclica sociale, Benedetto XVI «aiuta il pensiero politico contemporaneo ad affrontare le dicotomie dell'etica postmoderna, fondamentalmente scettica, poggiante su una visione antropologica pessimista». E «rivendica la dimensione pubblica del cristianesimo, non più relegato ad un ruolo consolatorio e periferico, ma riproposto come midollo dell'etica e della vita politica».





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