II Domenica di Avvento (A)


ANNO A - 5 dicembre 2010
II Domenica di Avvento

Is 11,1-10
Rm 15,4-9
Mt 3,1-12

EGLI È IL PIÙ GRANDE
TRA I NATI DI DONNA

Siamo sempre tentati di pensare che convertirsi significhi passare da una religione a un'altra oppure dall'ateismo alla fede. Per questo, in fondo, supponiamo che riguardi altri, non noi. Cosi, però, mortifichiamo fino ad annullarla la dimensione profetica della fede. Chi uccide i profeti sono i credenti, non coloro che non credono i quali, al massimo, possono ridere di loro. Matteo apre la sua narrazione della vita pubblica di Gesù di Nazaret, non diversamente, del resto, da tutti gli altri evangelisti, richiamando la figura ma, soprattutto, la predicazione di Giovanni il battezzatore.
Non lo fa tanto per dare a quel rabbi galileo che sta per entrare in scena un antefatto, un antecedente cronologico, ma per garantirgli un presupposto teologico: chi vuole ascoltare e accogliere Gesù, capirlo e seguirlo deve partire da lì, dalle rive del Giordano, dove la profezia di Israele arriva al suo pieno sviluppo.

Prima di essere lo spartiacque tra antico e nuovo, prima di segnare il passaggio di testimone tra l'economia dell'acqua e quella dello Spirito, Giovanni è colui che mette in guardia e ammonisce: può essere pronto ad accogliere il regno dei cieli solo chi accetta la dimensione profetica della fede, cioè chi accetta che credere in Dio chiede pentimento e conversione. Sempre, non una volta per tutte. L'appartenenza di fede non è un fatto scontato, non coincide con l'appartenenza a un popolo, a una tradizione, a una religione di Stato. La fede dei padri che si trasmette per inerzia, la fede delle tradizioni che mirano solo a conservare se stesse, la fede che non dà frutti, altro non sono se non credenza popolare o sistema religioso. Lì, però, Dio non c'è. Dio va cercato, ma mai afferrato. Per questo la fede chiede continua conversione e per questo ha bisogno di profeti.

Per "preparare la via del Signore" è necessario accettare il giudizio profetico. Un buon giudeo come Matteo lo sa molto bene. È il motivo per cui ci tiene a sottolineare la continuità sia di Giovanni che di Gesù con le profezie antiche. L'esperienza terribile della deportazione a Babilonia ha provato profondamente la fede di Israele e solo l'annuncio vigoroso e convincente dei profeti ha saputo sostenere la fede di un intero popolo di esiliati alimentandola di speranza. Il Dio della promessa non tradisce. Il Dio dell'alleanza non viene meno alla sua parola e al suo patto. La fede non è recriminazione o nostalgia del passato, è apertura al futuro. Nel futuro abita perciò la nuova promessa e la nuova alleanza. Il deserto nel quale Israele ha visto formarsi la sua fede e la sua identità di popolo di Dio non è più soltanto il deserto fisico del Sinai o del Negeb. È una situazione storica in cui si prepara la via del Signore, si vive l'attesa della sua venuta definitiva. Una venuta vittoriosa. Il vincolo che collega Gesù a Giovanni è, dunque, la predicazione profetica. Giovanni è l'ultimo dei profeti dell'Israele della promessa e Gesù è il profeta dell'Israele del compimento. Il primo è il precursore, il secondo è il Messia di Dio. Il primo è il profeta che battezza nell'acqua, il secondo è il profeta che battezza nello Spirito.

Gesù ha imparato da Giovanni, però, qualcosa di molto importante. Nel periodo che ha passato con lui ha capito che la predicazione profetica non è mai elitaria, non si rivolge né a iniziati né a osservanti. L'austero profeta del Giordano si è rivolto a tutto il popolo e il movimento che si è riunito intorno a lui, che chiedeva il suo battesimo di conversione, che accoglieva l'invito a prepararsi al giorno della venuta di Dio era un movimento popolare. Giovanni sa che la venuta di Dio sarà un evento di grazia per l'intero popolo e non soltanto per gruppi elitari di osservanti, per conventicole di perfetti o associazioni di attivisti. Dio si è scelto un popolo, non un gruppo di fedeli. E ha scelto un popolo per aprire una strada a tutti i popoli: in "quel giorno" il Messia sarà un vessillo per i popoli e le nazioni lo cercheranno con ansia, dice Isaia (11,10).

Per questo dura è l'invettiva di Giovanni, prima, e poi di Gesù (cf Mt 21,25.32; 23,33) contro coloro che credono di potersi accaparrare l'esclusiva di appartenere alla discendenza di Abramo. È il dramma che lacera tutte le religioni: alcuni le lottizzano facendone una proprietà privata, tracciano confini al di qua dei quali ci sono soltanto loro e al di là dei quali ci sono tutti gli altri, gli esclusi. Contro questo presunto ordine divino i profeti gridano lo sdegno di Dio. E la loro parola diviene sovversiva. L'oracolo profetico è parola di consolazione nei confronti del popolo degli esclusi e denuncia intransigente nei confronti di coloro che hanno fatto della promessa di Dio mercato per i loro privilegi. Con questi ultimi Giovanni è senza mezzi termini: il giudizio di Dio non guarda ai ruoli o alle appartenenze, ma ai frutti di misericordia che vengono dal cuore.

Giovanni il battezzatore aspetta il Signore che viene: un'attesa che lo converte e lo purifica. Il Messia però non sarà, come lui preconizza, il giudice che pulirà l'aia, raccoglierà il frumento e brucerà la paglia. Per Matteo, Giovanni morirà, come tutti, senza aver capito e domandandosi se deve continuare ad attendere (11,3). Lui, «il più grande tra i nati di donna» (11, 11).

VITA PASTORALE N. 10/2010
(commento di Marinella Perroni, docente di N.T.)




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