XXXIII Domenica del Tempo ordinario
Ml 3,19-20a
2Ts 3,7-12
Lc 21,5-19
COME ACCADRÀ
LA FINE DELLA STORIA
Alla questione della vita eterna, posta dal vangelo della precedente domenica, segue ora un brano che pone la questione del "come" avverrà il transito da questo all'altro mondo e dunque tratteggia la fine della storia. Tutto prende avvio da una questione apparentemente oziosa. Gesù reagisce drasticamente a considerazioni estetiche intorno al tempio di Gerusalemme, alle sue belle pietre e ai suoi doni votivi. Probabilmente l'ammirazione dei giudei per la casa di Dio era così inopportuna da chiamare in causa la distruzione totale? No, ma era foriera di un pericoloso modo di ragionare, come vedremo.
Il contesto da cui nasce il discorso apocalittico lucano non è, infatti, datato o estraneo alla nostra mentalità pastorale. Le "pietre", ossia gli edifici di una parrocchia o di un istituto, hanno per noi sacerdoti o religiosi una notevole rilevanza. Occupano tempo, forze e risorse dei presbiteri che ne sono responsabili e questo avviene perché sia mantenuta la loro efficienza e funzionalità. Tuttavia, si tratta, a volte, di strutture vuote o di cattedrali nel deserto, realizzate senza pensare effettivamente a chi se ne sarebbe giovato. Il parroco rischia di trasformarsi in un costrutto re o in un restauratore di professione e la parrocchia nella sede di un cantiere quasi permanente dove non mancano mai lavori o migliorie che è - si dice - assolutamente necessario realizzare.
In realtà, nella frase del v. 5, pronunciata dai giudei, c'è un manifesto autocompiacimento. C'è la sensazione di un traguardo raggiunto. Rimane come il sapore di una firma lasciata sulla storia. Questo era, anche, il significato nazionale del tempio. Il nostro problema fondamentale, preti, laici o religiosi non fa differenza, è quello di essere ricordati. Il vangelo della solennità di Cristo re è esplicito a questo proposito. Diremo, domenica prossima commentando il brano del "buon ladrone", che il ricordo si avvicina straordinariamente alla vita, fin quasi a coincidere con essa. Essere dimenticati equivale davvero a non esserci proprio più. Se per chi ha famiglia avere figli e nipoti risponde alla grande sfida della memoria, per chi, come noi preti, non ne ha, questa stessa sfida necessita di altre risposte. Inutile negare che, di frequente, preti o religiosi vengono ricordati in una comunità per ciò che hanno fisicamente realizzato e costruito. Il "mattone" diviene segno tangibile di una presenza non più cancellabile, se non alla fine dei tempi, come suggerisce il vangelo.
La "malattia" che ci spinge continuamente a edificare o riedificare non potrebbe avere anche una radice spirituale che tocca i gangli profondi della vita e della morte? Non è, a volte, la concretizzazione di un desiderio: essere ricordati o lasciare un segno che non passa? Ebbene, di tutto quello che abbiamo costruito, non diversamente dal tempio di Gerusalemme, non resterà pietra su pietra che non venga distrutta. Se così leggiamo lo sfondo delle parole di elogio pronunciate per il tempio e le sue belle pietre, comprendiamo meglio la radicale stroncatura che viene dalla bocca di Gesù. Non sarebbe male incidere queste parole, accanto al nome di offerenti e benefattori e parroci, sulle targhe commemorative che concludono l'itinerario di un cantiere. Diremmo, con una espressione più teologica, bearsi delle proprie realizzazioni spinge il presbitero e i suoi collaboratori a perdere quella "riserva escatologica" cui ci richiama tutto questo brano evangelico. La riserva escatologica è il pensiero della fine, la coscienza della transitorietà di ciò che realizziamo affinché non ci accada di identificare noi stessi con l'opera che abbiamo compiuto, dimenticando che agli occhi di Dio noi siamo molto di più. Ciò che rimane, come insegna Paolo ai Corinzi, è l'amore (1Cor 13,8).
Tutto ciò che è segnato dall'amore non avrà mai fine. Ben vengano allora tutte le «belle pietre e i doni votivi" che sogniamo per le nostre comunità parrocchiali purché siano strumenti e luoghi per apprendere e vivere la carità, non mezzi di autoaffermazione. Il vero cantiere è l'edificio fatto di pietre vive, dove è molto più difficile compiere l'opera, anche perché avvertiamo quanto noi stessi, presbiteri, siamo opera incompiuta, forse proprio perché troppo stabile e ferma. La pagina evangelica descrive la fine come un parto segnato da doglie di varia natura, cosmiche e sociali. La replica alla dura affermazione di Gesù, nel v. 6, domanda il "quando" e il "come" (v. 7). Ma non esistono né date, né ricette. Esistono persone o strategie che pretendono di essere risolutive nei momenti di crisi. Il loro linguaggio è lo stesso del Cristo: "lo sono" o "Il tempo si è fatto vicino" (v. 8).
Il primo rischio socio-politico, ma anche ecclesiale, è confondere uomini con il messia stesso. Serve discernimento, per smascherare falsi messianismi. Il secondo rischio è non cogliere i segni permanenti che ricordano a tutti noi la precarietà del mondo: guerre, cataclismi naturali e persecuzioni ai cristiani. Fatta salva l'importante distinzione tra le persecuzioni generate dalla nostra fedeltà a Gesù e persecuzioni senza martiri che provengono dal nostro peccato e dai nostri compromessi col male, occorre attendere dal Signore "bocca e sapienza" (v. 15), senza replicare al mondo con gli argomenti del mondo, senza rispondere alle persecuzioni con gli strumenti del persecutore.
VITA PASTORALE N. 9/2010 (commento di Claudio Arletti,
presbitero della arcidiocesi di Modena-Nonantola)