XXXII Domenica del Tempo ordinario (C)


ANNO C - 7 novembre 2010
XXXII Domenica del Tempo ordinario

2Mac 7,1-2.9-14
2Ts 2,16-3,5
Lc 20,27-38

LA RISPOSTA
CIRCA L’ALDILÀ

Nel rito del battesimo conferito a un adulto, tutto ha inizio con un dialogo che si svolge tra il ministro del sacramento e il battezzando. Il vescovo, o il sacerdote, domanda al catecumeno: «Che cosa chiedi alla Chiesa di Dio?». Questi risponde: «La fede». Il ministro allora replica: «E la fede che cosa ti dona?». Il catecumeno allora risponde: «La vita eterna». L'espressione ha una forza sintetica formidabile. Noi siamo divenuti cristiani per avere la vita eterna. Questa è la grazia vera del battesimo. Se la prima nascita ci conduce alla morte, la seconda nascita, quella battesimale, ci dona una vita che nessuna fine può distruggere. Non ci meravigli allora il tema dell'odierna pagina evangelica: la risurrezione. Siamo, in fondo, al cuore della nostra fede, se non la riduciamo a moralismi o devozionismi di vario genere. Essa è la risposta potente di Dio al dramma della morte.

La questione posta dai Sadducei al v. 27 ci potrebbe apparire non degna di uomini profondamente addentro alla fede di Israele quali erano loro. Tuttavia, ancora all'epoca di Cristo l'esistenza di una vita al di là della morte era più intuita e supposta che creduta con certezza. Il libro della Sapienza e dei Maccabei, preceduti da qualche frammento di Giobbe e del Deutero-Isaia, avevano affermato come il Dio Creatore non permettesse alle anime di precipitare nello sheol, una sorta di caverna sotterranea dove tutti, buoni e cattivi, si trascinavano come ombre, nella più completa assenza dell'Altissimo. Colui che aveva dato vita all'uomo era anche il Garante della sua conservazione fino a provocare la risurrezione dei corpi. L'affermazione del v. 27 chiarisce, però, come non tutti in Israele accogliessero questa verità, specie coloro, come i Sadducei, che consideravano Scrittura rivelata solo i primi cinque libri della Bibbia, il Pentateuco. Ciò permetteva di restare ancorati alla prima fede ebraica, secondo cui, dopo la morte, non v'era che un'unica sorte di oblio per tutti.
Dobbiamo affermare, per inciso, come l'evoluzione della fede in Israele mostri senza tentennamenti che la credenza in Dio non ha avuto origine dalla ricerca di risposte davanti alla morte. Questa è un'accusa molto frequente mossa al fatto religioso, quasi che l'uomo avesse un tale bisogno di affrontare il dramma della finitudine da generare la consolante frottola di un Dio che garantisce un aldilà a chi muore. La fede biblica non ha avuto questa origine. I Sadducei danno forza alla propria credenza costruendo ad arte una vicenda che dimostri l'impossibilità della risurrezione. Una donna diviene successivamente moglie di sette fratelli, senza dare ad alcuno discendenza.
Dunque spetterebbe a tutti e sette nella vita eterna. È interessante notare come sia assente negli interlocutori di Gesù ogni vero pensiero dell'eternità. Infatti, non diversamente dalla religione islamica, i Sadducei suppongono un'eternità identica, in fondo, a questa vita, dove tutto continua inalterato, ma in un luogo differente, celeste. Se pensiamo alle nostre rappresentazioni, non siamo probabilmente molto distanti. Il solo pensiero che l'eternità coincida con un'ininterrotta e noiosissima contemplazione immobile della Trinità conferma tutto ciò. La questione posta dai Sadducei ritorna in varie forme non solo a chi si risposa dopo aver perso il coniuge, ma anche a chi teme di dover sacrificare gli affetti che tanto gli hanno dato in questa vita, al solo amore di Dio nell'eternità.
Invece, se il lessico dominante per "questo mondo" (v. 34) è quello coniugale, la parola che più frequentemente ritorna nella descrizione dell' "altro" (vv. 35-36) è "figli". L'uomo, cioè, non deve continuare a procreare per sconfiggere biologicamente la morte e dare prosecuzione alla propria famiglia e alla razza umana. Ma vive in una condizione pari a quella angelica: non è più lambito dalla minaccia della morte e ritrova la paternità di Dio in tutta la sua pienezza. Noi abbiamo ricevuto la vita da nostro padre e da nostra madre. Ma proprio dall'istante del battesimo abbiamo potuto chiamare Dio con il nome di Padre. Siamo dunque anzitutto suoi figli. È sorprendente come il testo del vangelo operi un'apparente inversione di senso: non siamo figli di Dio e dunque della risurrezione. Ma poiché siamo figli della risurrezione siamo anche figli di Dio (v. 36). È come se Dio non realizzasse fino in fondo la propria paternità adottiva senza introdurre l'uomo in una nuova forma di esistenza: la risurrezione.

Se siamo figli, siamo anche fratelli e sorelle tra di noi. Ciò non è vero solo per questa vita, ma ancora di più per l'altra. Non vivremo solo ed esclusivamente l'amore di Dio nell'eternità, come in una famiglia l'essere figli dello stesso padre non comporta il fatto di amare esclusivamente il genitore. Anzi, l'amore che riceviamo dai genitori e l'amore con cui corrispondiamo al loro affetto includono anche l'amore ai fratelli e alle sorelle di cui condividiamo il sangue. Amiamo i nostri fratelli biologici perché riconosciamo di aver avuto la stessa origine. Amando loro, non usciamo o non tradiamo l'amore che dobbiamo ai genitori. Ne è piuttosto una conseguenza. Così l'eterno amore che offriremo al Padre includerà e purificherà ogni nostro affetto terreno. Nulla può andare perduto. Non v'è movimento d'amore autentico che non possa proseguire nell'altra vita, siano legami di sangue o amicizie o l'amore del coniuge. Essendo tutti figli, potremo amarci eternamente come fratelli, nell'amore di Colui che è per noi vita e beatitudine senza fine.

VITA PASTORALE N. 9/2010 (commento di Claudio Arletti,
presbitero della arcidiocesi di Modena-Nonantola)



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