XXX Domenica del Tempo ordinario (C)


ANNO C - 24 ottobre 2010
XXX Domenica del Tempo ordinario

Sir 35,15b-17.20-22a
2Tm 4,6-8.16-18
Lc 18,9-14

DUE UOMINI SALGONO
AL TEMPIO PER PREGARE

Purtroppo la traduzione italiana non permetteva, domenica scorsa, di apprezzare quanto il brano della vedova e del giudice preparasse la parabola del fariseo e del pubblicano al tempio. Non è solo il filo rosso della preghiera a legare i due testi, ma anche la questione della "giustizia". "Giustizia" è quanto reclama la vedova (18,3). "Giustizia" è quanto si decide a fare il giudice (18,5). "Giustizia" è quanto promette Gesù al termine del brano attraverso una domanda e una affermazione (18,7.8). Ma la radice greca della parola "giustizia" ritorna altre due volte: nella parola "avversario" del v. 3, e nella definizione del giudice che non è "disonesto" ma piuttosto "ingiusto" (18,6). Ora, se la preghiera della vedova mostra come Dio abbia cura del ristabilimento della giustizia in quanto Lui è giudice giusto, quella del fariseo evidenzia un difetto radicale che, della preghiera, compromette l'esaudimento.

Non è sufficiente, infatti, rivolgersi con costanza e gratitudine a Dio quando abbiamo un'immagine completamente errata di noi stessi, degli altri e del nostro rapporto con il Signore. Nel v. 11 troviamo lo stesso verbo e lo stesso gesto che aveva distinto il lebbroso samaritano dagli altri nove. Lui era tornato per ringraziare Gesù (17,16). Da questo punto di vista il fariseo sembra più che mai progredito nella sua relazione con Dio. È giunto infatti alla preghiera di gratitudine, senza più suppliche o domande interessate. In realtà, due termini usati rispettivamente da Gesù in riferimento al fariseo e dal fariseo stesso mostrano quanto una certa visione del mondo sia errata. Per il primo orante, dritto davanti a Dio, l'umanità si divide sostanzialmente in due categorie: giusti (v. 9) e ingiusti (v. 11). La prima lo include, mentre della seconda il pubblicano salito con lui è un perfetto esemplare. Questo vanifica completamente l'atto stesso della preghiera così come lo abbiamo percepito dalla vedova.
Non esiste nessun avversario, non c'è alcuna causa che mi spinga a gridare giorno e notte davanti all'ostilità del maligno che mi tenta. Non c'è bisogno di alcuna giustizia perché io sono già giusto. Dunque, Dio è un partner la cui superiorità può giovarmi solo come a un esibizionista giova un pubblico d'eccezione. Sì, Dio è solo spettatore di questo show che è la preghiera del fariseo. Ritorniamo, in fondo, all'introduzione che Luca pone alla parabola del buon samaritano. Ritorniamo all'intenzione che muove la seconda domanda del dottore della Legge: «Ma quello, volendo giustificarsi, disse a Gesù ...». Spesso l'uomo religioso davanti a Dio non accetta la nudità della fede, in virtù della quale tutto è grazia e la nostra condizione è quella di peccatori che necessitano di perdono. Piuttosto nutre un'immagine ideale che inevitabilmente viene scalfita da altri ma anche dalla nostra stessa coscienza. Proprio allora, con un movimento istintivo, ristabiliamo l'equilibrio, come quando stiamo inciampando in un ostacolo durante il cammino. Noi passiamo molto tempo a giustificarci di ogni più piccola bazzecola davanti agli altri. In questo teatro in cui siamo registi e attori, giriamo in tondo su noi stessi sprecando energie; soprattutto, però, non amiamo. Ritocchiamo la nostra bella immagine, ma senza che nulla possa cambiare.
Tutto nel fariseo indica una sorta di colloquio alla pari: la posizione eretta del suo corpo e soprattutto la preghiera snocciolata tra sé. Forse questo uomo non sta neppure pregando Dio. Prega se stesso, prega l'idolo della propria presunta giustizia: il suo ego. All'orazione si affiancano il digiuno e l'elemosina. Il quadro sembra davvero completo nell'orizzonte della pietà giudaica fondata su queste tre opere. Eppure nulla cambierà né in cielo, né in terra dopo questo episodio tutt'altro che religioso ma piuttosto narcisistico.
Ben diverso è l'atteggiamento del pubblicano, dalla sua posizione corporea fino alla sobria concisione delle sue parole. Egli si qualifica come peccatore (v. 13) e con la sua preghiera smuove il cuore di Dio. Scenderà a casa "giustificato" (v. 14). Qui troviamo il terzo aggettivo, la parola chiave che si pone come soluzione al dilemma presentato da un'umanità fatta di giusti e ingiusti. I primi esistono solo per volontà propria, come anche i secondi. C'è chi sceglie di ritenersi giusto e chi di rimanere semplicemente ingiusto. Per tutti coloro che si lasciano afferrare dal pastore, come pecore erranti, esiste l'amore che li rende giustificati. Dio è giusto a suo modo, praticando una misericordia folle. Egli non è equo: è fedele a se stesso. Questa è la giustizia biblica, per cui l'uomo resta creatura davanti al suo Creatore che è tenera compassione per ogni esistenza. Noi tutti siamo dunque anzitutto giustificati. Il perdono ci accomuna, ci affratella, impedisce giudizi netti e sentenze trancianti.

Solo chi si sente tale smette di fare divisioni intorno a sé, tra buoni e cattivi e scopre quell'umiltà che noi troppo spesso confondiamo con la disistima di sé e delle proprie capacità. Di questa umiltà è maestro Colui che è disceso fino agli Inferi per incontrare l'ultimo peccatore. Non troveremo mai Cristo sul piano elevato nel quale siamo idealmente magnifici. Egli ci aiuta a scendere nel cuore e lì ci aspetta. Non troveremo mai neppure i nostri fratelli con cui ogni domenica celebriamo l'eucaristia spesso giudicando e condannando silenziosamente chi siede accanto a noi, dopo un lungo tempo di lontananza dalla fede. Ma se perdiamo Dio e i fratelli, dove troveremo noi stessi?


VITA PASTORALE N. 8/2010 (commento di Claudio Arletti,
presbitero della arcidiocesi di Modena-Nonantola)


torna su
torna all'indice
home