XXVIII Domenica del Tempo ordinario
2Re 5,14-17
2Tm 2,8-13
Lc 17,11-19
LO "STRANIERO" CHE
DIVENTA UN ESEMPIO
L'episodio dei dieci lebbrosi trova il suo fuoco centrale ancora nel tema della fede, come si può intuire dalle parole finali pronunciate da Gesù al v. 19. Esiste la guarigione, ma, ancora di più, esiste la salvezza che non coincide semplicemente con la guarigione. Quest'ultima è come figura e promessa della prima, vero dono di Dio. Tutto riceviamo da Lui. Ma come ben mostra questa pagina evangelica spetta solo a noi decidere che cosa ricevere, se tutto o solo qualcosa. Potremmo dire che la gratitudine a Dio, senso del brano, è intimamente legata anche alla pagina udita domenica scorsa e dunque proprio al tema della fede. Viviamo come alberi trapiantati nel mare, viviamo come servi inutili infinitamente importanti per il nostro Signore, nonostante potesse fare a meno di noi. Se tutto è grazia, se tutto poteva non esserci, noi compresi, il compito decisivo della nostra vita è riconoscere che non dobbiamo chiedere nulla, perché tutto ci è stato dato. Questo è il significato ultimo della gratitudine domandata dal Cristo, molto più di un atto di cortesia. Essa è anzitutto un atto di profonda e radicale verità.
La scena si sviluppa in terra ostile, lontano dalla Giudea, in Samaria e Galilea. È difficile accordare le indicazioni geografiche forniteci da Luca con l'itinerario verso Gerusalemme iniziato in 9,51. Rimane il dato della presenza del Maestro in terre problematiche quanto a ortodossia di fede. Mentre Gesù fa per entrare in un villaggio, coloro che erano forse appostati sul suo limitare, esclusi ma desiderosi di essere riammessi nella comunità dei vivi, alzano la voce per interpellare la misericordia del Cristo. L'obbedienza accordata dai lebbrosi alla parola del Maestro è sorprendente e rivelatrice di una grande fede, intesa come assenso e sottomissione. L'ordine di Gesù non era così immediatamente ricollegabile alla possibilità di guarire. Supponeva che il miracolo fosse già avvenuto e che i sacerdoti dovessero solo constatarlo. La Parola sovrana che produce ciò che afferma guarisce però i dieci nell'atto del loro andare. Proprio questo fatto avrebbe dovuto riportarli a Colui che li ha guariti con la sola forza del dire piuttosto che ai sacerdoti capaci al più di constatare la guarigione, non certo di realizzarla.
Invece, sembra prevalere l'intenzione immediata, la riammissione nel popolo, il ricongiungimento con la vita perduta a causa della malattia. È come se la guarigione provocasse un'altra sorta di male molto peggiore della lebbra: l'oblio, la dimenticanza. Scompare la lebbra come scompare anche la memoria della Parola liberatrice e purificatrice. Solo uno torna. È un samaritano, uno straniero. Gesù insiste sul fatto attraverso una domanda che non riceve risposta verbale (v. 18). Possiamo avvicinare questa figura ai peccatori contro cui scribi e farisei mormorano (15, 1-2), ma anche alla peccatrice del cap. 7 o a tutti gli esclusi che davvero sanno stupirsi dell'avvento del Regno senza considerarlo un fatto scontato. È certo che i dieci lebbrosi siamo noi. È anche altrettanto certo che non sempre siamo il lebbroso che torna, preda come ci ritroviamo dell'abitudine al dono che finiamo per considerare un diritto. Figli coccolati, abituati a ricevere tutto, noi rischiamo di somigliare agli ingrati. Non c'è nessun cuore peggiore di un'anima prigioniera dell'abitudine.
Eppure la riconoscenza del samaritano, che sfocia nella glorificazione di Dio, è la via maestra a comprendere la nostra condizione. «Che hai dunque che tu non abbia ricevuto?» ci ricorda l'Apostolo (1Cor 4,7). L'azione di grazie, la quale raggiunge il suo vertice nell'eucaristia, ripresa anche dal verbo greco del v. 16, è quanto abbiamo di più vero. Tutto in noi è grazia e quando siamo in rendimento di grazie cominciamo ad agire secondo la nostra vera natura. Per questo solo uno è salvato, mentre tutti sono guariti. Nessuno più è infettato dalla lebbra. Ma solo uno ha trovato Dio nel Cristo. La fede non è un fortunato processo che può condurci a ottenere ciò che vogliamo per poi seguire altre strade. La fede è lo stupore che consente di cercare ancora dopo aver apparentemente trovato tutto. L'intelligenza che non sa meravigliarsi non comprende assolutamente nulla e non raggiunge alcun obiettivo. Nella fede, invece, la prima realtà diviene Cristo, il donatore. Non i suoi doni. È in Cristo che noi respiriamo e viviamo. Siamo sicuri di Lui che rimane fedele per sempre.
Si può dire, per questo, che il ringraziamento sia il primo movimento della preghiera. Esso deve costituire una sorta di "a priori", a prescindere da ciò che sarà e che ci accadrà. In questo senso il lebbroso, con Cristo e in Cristo, non è salvo tanto dalla lebbra, ma da tutto ciò che potrebbe accadergli qualora vivesse la sensazione di essere stato abbandonato di nuovo da Dio: la pesantezza, la disperazione che distoglie gli occhi dal cielo e ci consegna a false soluzioni. L'azione di grazie, invece, è la disposizione fondamentale che contiene tutto. L'azione di grazie è l'ispirazione primordiale dello Spirito Santo, il quale ci riconduce perennemente alla nostra dignità filiale, dignità immeritata per noi che siamo figli adottivi in virtù della Pasqua di Cristo. Un simile impulso, una siffatta preghiera giunge immediatamente al cuore del Padre. La questione allora non è mai che cosa ottenere dall'onnipotenza celeste, ma chi incontrare perché possiamo essere sempre con Lui, nella buona e nella cattiva sorte, adesso e nell'ora della nostra morte.
VITA PASTORALE N. 8/2010 (commento di Claudio Arletti,
presbitero della arcidiocesi di Modena-Nonantola)