XXVII Domenica del Tempo ordinario
Ab 1,2-3;2,2-4
2Tm 1,6-8.13-14
Lc 17,5-10
LA FEDE SI RICONOSCE
DAI FRUTTI CHE PRODUCE
Il cap. 17 può essere definito come una intensa catechesi sulla fede. Tutto muove da un appello fatto dai discepoli a Gesù a seguito di un ammonimento sugli scandali e sul perdono. È in gioco il male che facciamo agli altri e quello che gli altri possono fare a noi. Davanti alla fragilità del fratello che può essere ostacolato nella fede dal nostro comportamento come davanti alla fatica di perdonare il male ricevuto i Dodici chiedono un aumento della fede. Ma Gesù non sembra accogliere una logica quantitativa riguardo a essa, ma piuttosto qualitativa. La fede esiste o non esiste. È inutile misurarla. Basta averne quanto un granellino di senapa (v. 6). Se è vera la si riconosce dai frutti paradossali che produce. Il granellino di senapa richiama in Lc 13, 19 la forza impressionante del Regno, realtà apparentemente piccola ma capace di una smisurata crescita. Ciò che appare agli occhi è ingannevole.
Non dobbiamo però ritenere che la forza della fede emerga dalla capacità di produrre miracoli. L'esempio portato da Gesù parrebbe suggerire che ogni richiesta, fatta con fede, venga esaudita, anche la più inverosimile. In realtà, il paragone scelto non è casuale. Rivela che cosa sia la fede, pur nella sua piccolezza. Perché mai, per fede, dovremmo infatti domandare a un gelso di sradicarsi per piantarsi nel mare? Quale beneficio ne avrebbe mai la causa del Regno? Perché Gesù non fa piuttosto riferimento alla guarigione di ammalati o lebbrosi come segno della vera fede? L'esempio del gelso chiede dunque di essere riletto come metafora della fede, non tanto della sua potenza, ma della sua natura. Il gelso piantato nel mare non parla delle facoltà superumane del credente, ma della sua condizione. Chi vive la radicalità della fede è come quest'albero nel mare.
Per questa ragione il gelso dovrebbe obbedire a un comando assurdo come quello suggerito da Gesù: perché il credente ha già fatto nella propria esistenza ciò che ora domanda di fare all'albero. Nella logica della fede, in altre parole, non è strano che un albero metta radici nel mare. Un albero come il gelso, dalle profonde e potenti radici, è molto difficile da sradicare. Questo è vero di ogni uomo che instancabilmente cerca terreno dove mettere radici, va a caccia di sicurezze. Noi possiamo chiamare così la famiglia, il lavoro, gli affetti: sono terreni in cui abbiamo piantato radici per acquisire solidità e trarne nutrimento. Senza, saremmo perduti. Vivere invece nella fede equivale a poggiare tutto il peso della propria vita in Dio e solo in Lui, come sostegno, forza, risorsa. Ma che cosa vuoi dire questo concretamente? Significa togliersi dal visibile, proprio come il gelso, per poggiare sull'invisibile, sul Dio nascosto, sfuggente, misterioso. Per questo la fede è tremendamente faticosa per chi vuole "toccare" il proprio sostegno.
Il Dio di Gesù Cristo non si lascia addomesticare né manipolare ma invita l'uomo a consegnare totalmente se stesso, camminando anche nel buio e nell'oscurità. Capiamo allora l'immagine efficacissima di radici che cercano appiglio nel mare. Come possono farlo? È impossibile secondo una logica "carnale" direbbe san Paolo, ma non secondo una logica spirituale. A un vero credente, un gelso non potrebbe mai rifiutare un gesto del genere, perché rientrerebbe appieno nelle esigenze della fede. Ogni qualvolta noi ci siamo davvero fidati di Dio, contro ogni apparenza, in lunghe attese, a volte disperanti, ci siamo trovati esattamente come alberi che cercavano di mettere radici nel mare, come sospesi in un elemento vastissimo, onnipresente, ma allo stesso tempo non solido. Dalla terra al mare: questo è l'esodo della fede e la spoliazione che domanda.
È altrettanto naturale, come prosegue il brano, che un servo, al rientro dal lavoro non si metta a tavola per essere servito, ma serva il padrone prima di mangiare a sua volta. Non vi sarebbe nulla di strano in tutto questo, come sottolinea Gesù. Il paragone ci urta, specie quando compare il termine "inutile" (v. 10). Ma se riflettiamo un istante, la natura della nostra esistenza ci sospinge in questa direzione. Dio è trinità di persone e comunione d'amore. L'uomo non è stato creato perché Dio ne avesse necessità. In tal senso siamo davvero inutili. Se esistiamo è solo per amore. Il famoso detto cartesiano: Cogito ergo sum andrebbe convertito in un detto certamente più biblico: Amor ergo sum: "Sono amato dunque esisto". Perdere questa coscienza, rende impossibile credere. Viviamo piantati in Dio. La sua esistenza motiva e spiega la nostra come quella di un terreno giustifica quella di un albero. Senza terreno, nessun seme potrebbe dare origine a una qualche forma di vita. La dipendenza è assoluta.
È una grazia esserci e poter vivere al servizio della signoria di Dio, riconoscendo il suo indiscusso primato. Dobbiamo partire da qui, da questo secco paragone per capire cosa significhi veramente credere. Certo il discorso evangelico non termina qui. Non dimentichiamo quello che abbiamo letto poche domeniche fa: proprio i servi che qui Gesù definisce "inutili", se trovati vigilanti al ritorno del padrone, saranno messi a tavola per essere serviti dal padrone cui hanno aperto subito (12,37). Proprio ciò che Gesù qui sembra escludere è la ricompensa promessa nell'eternità. Il premio meritato dalla fede è la condizione stessa di Dio, la sua medesima beatitudine. Dio non è un padrone che schiaccia i suoi servi, ma un Padre che li promuove ed eleva in modo incommensurabile.
VITA PASTORALE N. 8/2010 (commento di Claudio Arletti,
presbitero della arcidiocesi di Modena-Nonantola)