XXVI Domenica del Tempo ordinario
Am 6,1a.4-7
1Tm 6,11-16
Lc 16,19-31
LE RICCHEZZE CHE
OTTUNDONO IL CUORE
È necessario di nuovo affiancare questa terza grande parabola alle due precedenti, per comprendere l'intensità del messaggio offertoci dal Signore Gesù. Dopo una serie di detti sulle ricchezze, sull'ipocrisia farisaica che spinge all'autogiustificazione davanti a Dio (16,15) fino a giungere a un detto sull'indissolubilità del matrimonio, senza soluzione di continuità o stacchi spazio-temporali, senza neppure la consueta premessa che permette di riconoscere in un racconto una parabola, Gesù inizia a narrare di un uomo ricco (v. 19). L'esordio è lo stesso dell'amministratore ingiusto in 16,1. Ma questa volta, significativamente, non è descritta alcuna relazione. L'uomo ricco si limita a banchettare lautamente ogni giorno, senza alcun motivo (v. 19). Il verbo richiama il banchetto voluto fortemente dal padre per il ritorno del figlio minore (15,23.24). Ma qui non v'è indicazione alcuna di una ragione familiare che spinga alla festa. La differenza è palese.
Con due semplici tocchi, davvero magistrali, Luca ci rammenta le due ultime parabole e inevitabilmente ci porta a istituire un confronto tra il padre misericordioso, il padrone alle cui dipendenze stava l'amministratore e questo anonimo ricco. Lo stile improntato al dono e alla lode di chi impara a donare amore attraverso i beni qui è totalmente contraddetto. Il ricco, da subito, è presentato come affetto da una sorta di autismo. Non esiste altro che lui. Il dato appare in tutta la sua sconfortante evidenza quando, dai vv. 20-21, apprendiamo di una presenza accanto alla casa del ricco: è Lazzaro, affamato e piagato su cui nessun samaritano si piegherà con olio e vino. Il desiderio di Lazzaro ci riporta a un altro racconto presente in Marco 7 e Matteo 15 dove attorno a una tavola stanno dei cani, una tavola talmente ricca che le sole briciole bastano a sfamarli. È la donna siro-fenicia a immaginare così la tavola celeste. Il pane dei figli non può essere gettato ai cani, ma la tavola di Dio è troppo munifica perché qualcuno rimanga affamato ed escluso.
Qui la situazione è diametralmente opposta. I cani praticano una elementare e istintiva compassione verso le piaghe del povero di cui l'anonimo ricco non è capace. Lazzaro non riceverà attenzioni di altro genere. Tuttavia, mentre la sua morte è descritta come un viaggio verso il seno di Abramo, il medesimo versetto 22 conclude l'itinerario terreno del ricco con una sola breve nota: «Fu sepolto». In realtà i due si ritrovano, vicini e allo stesso tempo irrimediabilmente lontani nell'aldilà. Lo spazio di una porta, una semplice soglia (v. 20) ora è divenuta un abisso (v. 26). L'esortazione di Gesù a farsi amici con l'ingiusta ricchezza qui diviene drammaticamente concreta e reale. Alla breve sofferenza di Lazzaro, accolto da Abramo, corrisponde il tormento eterno del ricco. Quest'ultimo ha sbagliato tutto. Ma, spinto da un pensiero finalmente rivolto all'altro, rivolge una preghiera a favore dei suoi cinque fratelli. Il breve scambio che segue con Abramo permette di comprendere magnificamente la chiusa del vangelo di domenica scorsa. Che cosa significa servire la ricchezza (16, 13)? Lo schiavo, come il servo dipende dalla voce e dalle parole del padrone. Non solo: diviene come il Signore che serve. Per questo, il ricco è sordo e muto come i beni che idolatra e con cui banchetta ogni giorno, sordo al desiderio di Lazzaro, muto davanti al suo tormento. Proprio la questione della sordità chiude la parabola, illustrando l'effetto più nefasto delle ricchezze che ottundono il cuore. Alla preghiera del ricco Abramo replica che i suoi fratelli hanno già Mosè e i Profeti - espressione indicata per alludere all'intera Scrittura giudaica -; possono ascoltare quelli.
Il ricco invoca un intervento straordinario e spettacolare, non diversamente da chiunque non vuole credere e "tenta" Dio, secondo il linguaggio biblico, pretendendo un segno a proprio gusto e misura. Ma qui, come evidenzia Abramo, non si tratta dell'iniziativa divina. Non è quella a essere carente. La questione è il cuore dell'uomo, quando perde la "vera" ricchezza (16,12), la "propria" ricchezza (16,11) e si fissa su quanto è transeunte. Recita il salmo: «L'uomo nella prosperità non comprende. È come gli animali che periscono» (Sal 49,21). La definizione è perfetta. Lo spirito dell'uomo, ridotto a stato larvale e asservito all'accumulo, ormai non percepisce più nulla. Chi non sente il fratello che ha fame, come può sentire la voce di Dio che lo esorta a condividere i propri beni? Verso Dio e verso i fratelli adottiamo la stessa misura. Non siamo diversi nel nostro comportamento verso il Padre rispetto a quanto facciamo con il prossimo. Allora neppure un morto che risuscita potrebbe sortire qualche effetto.
Quando Luca scrive, già la risurrezione di Gesù è stata rifiutata e negata da parte del popolo ebraico come anche da uditori pagani (cf At 17,32). I profeti evocati da Abramo parlerebbero di circoncisione del cuore e delle orecchie non solo della carne. La sordità spirituale è la vera morte dell'uomo, capace di separarlo da tutto e da tutti. Questo passo evangelico completa il discorso sui beni avviato al cap. 14, oltre a quanto precede già nel cap. 12, per portarlo alle estreme conseguenze e offrire a noi un interrogativo radicale intorno alla nostra capacità di ascolto, di conversione e cambiamento. Quanto ci lasciamo interpellare da Dio e dal fratello? Condividere la Parola significa poi condividere il banchetto della festa, secondo la misura illimitata dell'amore di Dio.
VITA PASTORALE N. 8/2010 (commento di Claudio Arletti,
presbitero della arcidiocesi di Modena-Nonantola)
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