XXV Domenica del Tempo ordinario
Am 8,4-7
1Tm 2,1-8
Lc 16,1-13
NON ESISTE NULLA
ETERNAMENTE NOSTRO
L'esordio della parabola offertaci dall'odierna pagina evangelica non può non riportarci alla memoria l'inizio della parabola dei due figli. Là «un uomo aveva due figli» (15,11). Qui «un uomo ricco aveva un amministratore» (16,1). Luca le ha collocate una dopo l'altra e la scelta non può essere stata casuale. L'impressione è però di un notevole salto tematico: dall'amore viscerale di un padre per due figli egualmente perduti, passiamo agli stratagemmi poco eleganti di un amministratore che non vuole né lavorare né mendicare e sta per vivere una frattura lavorativa senza ritorno. Eppure già l'accusa rivolta a costui ci riporta al figlio più giovane. Infatti, l'amministratore sperpera i beni del padrone esattamente come il figlio minore. Il verbo usato è lo stesso (16,1 e 15,13). Anche il monologo interiore dell'economo non si allontana molto da quello del figlio affamato che non ha accesso nemmeno al cibo dei porci. La posta in gioco è la stessa: essere accolti in casa ed essere sfamati.
Se il figlio ritorna contrito dal padre domandando una misericordiosa riammissione fra i servi (15,17-19), l'amministratore decide di sfruttare ancora il suo ruolo per essere accolto nelle case altrui quando sarà allontanato dal servizio (16,4). Agisce secondo una logica precisa. In fondo è quanto gli ha domandato il padrone nel v. 2. Il testo italiano dice: «Rendi conto della tua amministrazione», presupponendo un'analisi eminentemente matematica, fatta di numeri. Ma il testo greco si spinge più in là. Il termine greco reso con "conto" è logos. Non sarebbe fuori luogo allora tradurre: «Rendi la ragione» ossia il "senso" o il "significato" della tua amministrazione. Questa ragione è creare rapporti e amicizie attraverso i beni, convertendo le cose in strumenti di dono. Così l'amministratore inizia a condonare parte dei debiti (16,5-7).
Se riflettiamo un istante non siamo lontani dalla parabola dei due figli. Infatti l'infedeltà del primo concretamente viene indicata come sperperio dei beni patemi. La recriminazione del secondo si fonda non solo su questo dettaglio, ma anche sul successivo comportamento paterno. Infatti, non solo il minore ha sperperato tutto con le prostitute, ma il padre ha fatto ammazzare per lui il vitello grasso. Ebbene, il maggiore non ha mai ricevuto, stando alle sue parole, neppure un capretto per far festa con i propri amici. Commentando il cap. 12, qualche domenica fa, riguardo all'eredità contesa tra i due fratelli, già affermavamo come i beni abbiano uno straordinario valore simbolico. Il maggiore sembra misurare l'affetto paterno a chili di carne. Ora, se tra il vitello e il capretto esiste una bella differenza, questa è rivelatrice della parzialità del padre che non ama i figli allo stesso modo. Il filo conduttore dei beni continua dunque dalla parabola del figliol "prodigo" fino a quella dell'amministratore "prodigo". Potremmo dire che questa seconda figura rappresenta la redenzione del primo. Egli infatti inizia a sperperare non a vuoto, ma come fa Dio stesso. Per questo viene lodato dal padrone. Egli agisce saggiamente (16,8) mentre il minore ha agito da dissoluto (15,13). È questa saggezza che il Signore vuole inculcare nei suoi discepoli. Ognuno di noi, in fondo, non è altro che un amministratore di beni che non sono suoi. Li abbiamo ricevuti da chi ci ha preceduto e li lasceremo a chi verrà dopo di noi. Tutto è dono di Dio, giunto a noi dalle mani di chi ci ha cresciuto o sostenuto nel cammino della vita. Nessuno pasce, avendo già guadagnato quanto possiede.
È bene ricordare che la differenza tra noi e un miserabile destinato a mendicare tutta la vita spesso non sta nelle capacità individuali ma nelle condizioni di partenza, profondamente diverse. Se fossimo nati su un marciapiede di Calcutta, là dove madre Teresa raccoglieva i moribondi, dove saremmo adesso? Ogni figlio di Dio è dunque anche amministratore. Può sperperare per sé o per altri. Questa è l'alternativa di fondo. L'amministratore è infatti "ingiusto", non "disonesto", stando al testo greco. Anche Dio è ingiusto poiché è misericordioso con i peccatori, stando alla parabola di domenica scorsa. La sua equità sarebbe la nostra rovina. L'amministratore è lodato da un padrone che riflette la mentalità del Padre di ogni misericordia. Anche la ricchezza non è "disonesta", ma "ingiusta" (16,11). Non rimane nelle mani di nessuno e capita anche a chi non ha fatto nulla per meritarla.
Quale volto dare allora all'ingiustizia dei beni? Bisogna usare i beni per comunicare amore e farsi degli amici (v. 9). Tanta ricchezza, in realtà, è poca cosa (v. 10). Non è lì che si gioca la vera fedeltà dell'uomo (v. 12). Gesù non parla dei beni altrui contrapposti ai propri ma del tesoro che deve assorbire il nostro cuore e deve essere riposto nei cieli dove tignola e ruggine non consumano (12,33). Questo tesoro è la nostra figliolanza. Noi siamo pecore del gregge di Dio, monete nella sua bisaccia (15,1-10). La sua alleanza con noi è il vero bene della nostra esistenza (v. 11). L'ammonimento di Gesù trova la sua piena spiegazione nell'ultimo versetto del brano. Se la ricchezza deve essere simbolo e veicolo di altro, può accadere che essa divenga nostro padrone cui prestiamo servizio, piuttosto che usarne per il servizio altrui. La coppia di verbi "odiare\amare" (v. 13) ci è nota dal cap. 14, riferita a genitori e familiari. La sequela del Signore Gesù non può essere vissuta appieno da un cuore diviso. Possiamo servire un solo padrone. Sta a noi la scelta.
VITA PASTORALE N. 8/2010 (commento di Claudio Arletti,
presbitero della arcidiocesi di Modena-Nonantola)
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