XXIV Domenica del Tempo ordinario
Es 32,7-11.13-14
1Tm 1,12-17
Lc 15,1-32
È FESTA IN CIELO PER UN
PECCATORE CHE SI PENTE
«Se uno viene a me e non odia suo padre, sua madre...» (Lc 14,26). Impressiona riascoltare queste parole alla luce della tenerissima parabola raccontata dal Figlio sull'amore del Padre. Eppure solo leggendo insieme i testi evangelici offertici in queste domeniche possiamo intendere la ricchezza del messaggio. La "porta stretta" del cap. 13 si mostra qui in tutta la sua ampiezza. Essa non solo è aperta per chi giunge da oriente e da occidente (13,29) ma soprattutto per il figlio che ha apertamente rinnegato il padre. Il prodigo che dovrebbe sedere ultimo al banchetto celeste dove tutti si affannano a cercare i primi posti (14,7), ammesso solo per pura misericordia, viene vestito con l'anello al dito e i sandali ai piedi. Lui riceve tutti gli onori (15,22). Il Padre esce incontro non a poveri, storpi, ciechi e zoppi (14,13) per sfamarli con il vitello grasso (15,23) ma a colui che davvero mai potrà contraccambiare perché tremendamente in debito, avendo sperperato tutto (15,13).
È l'incomprensibile logica di Dio che supera ogni calcolo. Se noi siamo invitati a calcolare bene la spesa nel costruire l'edificio della vita, come anche nel combattere la battaglia decisiva (14,28-32) è per noi impossibile calcolare di quanto amore siamo oggetto da parte del Padre. Lui è il vero prodigo, come suggerisce il fatto che lo stesso verbo greco applicato allo sperperio del figlio nel v. 13 è applicato a Dio stesso (o al giusto che segue i suoi comandamenti) dal salmo 112, al v. 9. Dio dà largamente ai poveri. Proprio nell'effusione senza limiti e confini si realizza il calcolo ultimo della sua volontà.
L'odierna pagina evangelica ci presenta, tuttavia, l'insieme delle tre parabole sulla misericordia, permettendoci di apprezzare appieno la loro connessione e progressione. In risposta alla mormorazione dei farisei mossa dalla sua promiscuità con i peccatori (già commentata nella quarta domenica di Quaresima) Gesù pronuncia due brevi parabole dove mostra come il Padre agisce secondo quanto farebbe chiunque perde qualcosa che gli appartiene, cercandola con accanimento. Così incontriamo un uomo che cerca un animale perduto in spazi aperti e, parallelamente, una donna che cerca un oggetto dentro casa. La terza parabola ci porterà di fronte a un padre che ama come e più di una madre in una ambientazione che riunisce le due precedenti: la casa e gli spazi aperti. Oltre alla ricerca di quanto "perduto", ciò che unisce il pastore e la donna è la gioia. Le parabole ci aiutano a comprendere quando e perché Dio fa festa. Qui siamo spiazzati. È il peccatore che si converte il motivo dell'esultanza celeste. L'insistenza su questo motivo è costante, rivelandosi il vero filo conduttore delle tre parabole (15,5.7.9.10.23.24). L'intensità della festa spiega la ricerca e l'intensità della ricerca motiva la gioia. La differenza toccante tra le prime due parabole e la terza è la passività del padre, rispetto al pastore e alla donna. Una pecora si lascia afferrare; una moneta ancora più facilmente. Ma il cuore di un figlio è luogo di libertà. Non può esservi costrizione. Allora, se il pastore va e la donna spazza la casa e accende la lucerna, il padre deve attendere per il minore, come per il maggiore il loro libero assenso.
Rimane comunque fondamentale il concetto di appartenenza. Dio sente come suoi figli quei peccatori che non lo riconoscono più come proprio Padre. Su questa idea le nostre comunità cristiane hanno bisogno di una profonda revisione. Anche in tempi di crescente secolarizzazione, come questi, non mancano persone che si riavvicinano al cristianesimo e si affacciano, dopo anni magari, di nuovo all'interno della comunità cristiana. Spesso tuttavia faticano a inserirsi, non trovano spazio perché vorrebbero prestare il loro aiuto e invece involontariamente turbano equilibri vecchi di decenni, sottraggono "fette" di potere a chi gestisce un servizio non tanto per amore di Dio ma quanto per apparire o trovare almeno un ambito di realizzazione.
Raramente, diciamolo con franchezza, le nostre comunità sono accoglienti verso i "pubblicani" che ritornano. Sono ingombranti, a volte imbarazzanti per la sincerità e la naturalezza con cui pongono la questione della fede a chi invece vede la parrocchia o la comunità cristiana come una piccola azienda. Questo accade perché noi non sentiamo queste persone come "nostre", nel senso più evangelico del termine. Le avevamo perdute e sono state ritrovate. Forse avremmo dovuto cercarle invece che occuparci solo della nostra pastorale "obesa" di riti e convegni. Ma almeno potremmo accoglierle mostrando loro un barlume di quella gioia che si consuma in cielo per il loro ritorno.
È questo che separa radicalmente l'uomo-Dio dagli uomini di Dio, Gesù dai farisei. A loro non importa nulla dei peccatori. Sono egocentrici: ossia se fanno del bene comunque lo fanno per se stessi, mai per l'altro. Il diverso e il lontano divengono semplicemente causa di mormorazione e giudizio sull'agire di Gesù e la sua scandalosa comunione di mensa. Chi si allontanerebbe di nuovo se, riaffacciatosi alla vita ecclesiale, comprendesse dall'atteggiamento di chi lo riceve quanto fosse atteso. La gioia per il ritorno del peccatore, il dolore per la lontananza di chi non c'è, fosse anche uno solo, è la grande passione di Dio che ancora non ci ha infettato il cuore, che ancora non brilla sul nostro volto di Chiesa.
VITA PASTORALE N. 8/2010 (commento di Claudio Arletti,
presbitero della arcidiocesi di Modena-Nonantola)
torna su
torna all'indice
home