XIX Domenica del Tempo ordinario
Sap 18,6-9
Eb 11,1-2.8-19
Lc 12,32-48
AL PADRE È PIACIUTO
AFFIDARCI IL REGNO
Il vangelo proposto per questa domenica dell'anno liturgico è un prolungato commento alla seconda invocazione del Pater: «Venga il tuo Regno». Essa fonda l'invito rivolto dal pastore Cristo al piccolo gregge, affinché non tema: «Al Padre vostro è piaciuto darvi il Regno» (v. 32). La fiducia di Dio nei nostri confronti è sempre smisurata e ci affida compiti che sembrerebbero trascendere le nostre forze. Eppure il Padre ha voluto affidare a noi il compimento della sua volontà, nel cielo come in terra. È sempre la stessa ragione che motiva l'esortazione a non accumulare di cui ascoltavamo domenica scorsa e che ritorna anche qui nei vv. 33 e 34.
Non si tratta di fondare la sobrietà evangelica sull'autocontrollo che limita le mie brame o sull'ascesi che mi spinge a valorizzare il carattere educante della rinuncia. Il distacco dai beni non può che nascere dall'orientamento del cuore. Dove è il cuore, là è il nostro tesoro (v. 34). Il cuore di un credente non può essere orientato all'accumulo, perché attende il suo Signore e invoca costantemente l'avvento del Regno, vera ricchezza, incomparabile tesoro. La fiducia conduce dunque alla sobrietà e questa viene alimentata dal protendersi verso il futuro di Dio che giunge a noi.
Comprendiamo allora l'immagine dei fianchi cinti e della lucerna accesa (v. 35). Come sappiamo, richiama l'Esodo, narrato attraverso un linguaggio evocativo e non poco enigmatico anche dalla prima lettura. Ma richiama non meno lo stato di pellegrini e viandanti che fu di tutti i patriarchi di cui parla la lettera agli Ebrei, presente come seconda lettura. Essi vissero come in terra straniera, sempre protesi verso la patria celeste. La loro fede e la loro speranza coincisero con una autentica familiarità con l'invisibile, con ciò che solo può essere atteso perché non si può afferrare o mettere in cassaforte. Solo così è possibile relativizzare il visibile: vivendo con la leggerezza e la sobrietà dei pellegrini.
In realtà, il prosieguo del Vangelo indica il Signore, non solo noi, come viandante che torna dalle nozze e bussa perché gli sia aperto. Il cammino decisivo, anzi, non è il nostro. Siamo invitati ad attendere senza mai dimenticare a chi appartiene la prima attesa. Noi attendiamo il Signore sposo che rientra dal matrimonio consumato con tutta l'umanità nell'istante della redenzione. La nostra vigilanza si esprime anche nella preghiera, con cui bussiamo perché ci venga aperto. L'immagine non è di molte domeniche fa. Eppure anche questa è capovolta. Pure dall'altra parte della porta qualcuno bussa. È il Signore della storia che desidera entrare per servirci. Sarà lui a cingersi i fianchi (v. 37), esattamente come è stato ingiunto ai servi poco prima (v. 35). Non è una vacua promessa. Basti pensare alla lavanda dei piedi narrata da Giovanni, ma anche all'eucaristia, cui allude il greco del v. 38. Là si parla di "seconda o terza vigilia". Ogni sabato la prima vigilia era il tempo notturno in cui i primi cristiani celebravano l'eucarestia, prolungando la preghiera comune anche fino al cuore della notte. Essi sedevano e lo Sposo giungeva fino a loro non solo per servirli, ma per consegnarsi come cibo, come sacramento dell'attesa.
Se il cristiano non attende né invoca il Regno non sa più chi è. Per questo tale atteggiamento non può certo appartenere solo al tempo d'Avvento ma a ogni istante della vita. È significativo che in tutti i paragoni utilizzati da Gesù in questa pagina il credente sia indicato come servo o responsabile di altri servi. È d'altronde il nostro statuto. Fa eccezione la piccola parabola del padrone che non sa a che ora giunge il ladro (vv. 39-40). In quel caso, se noi ci identifichiamo nel padrone di casa è altrettanto vero che Gesù viene a essere il ladro da cui siamo sorpresi nell'istante della morte.
Avviene un curioso stravolgimento di ruoli: il servo dimentica chi è, credendosi padrone e signore, come anche è detto al v. 45, allora lo sposo che torna dalle nozze si tramuta in ladro. Non può che essere così: l'uomo che cessa di attendere diviene padrone e il vero signore si cambia necessariamente non nello sposo che compie la festa della vita con l'eternità, ma nel ladro che sottrae e ruba tempo a chi vuole ancora dominare e controllare tutti gli eventi. Spesso la morte giunge così anche per noi cristiani. Ci sentiamo sempre defraudati, ingiustamente, di ciò che diciamo appartenere a Dio ed essere suo dono. Se si spegne l'attesa perdiamo noi stessi, perdiamo il vero volto di Cristo, sfigurato in quello di un ladro e perdiamo il senso della vita e della morte. Non siamo lontani dal meccanismo della cupidigia per cui accumuliamo beni che siamo destinati a perdere. Qui il bene sono i giorni, il tempo della vita. Ma l'atteggiamento non cambia.
Esiste un orizzonte senza ladri né ruggine, quello descritto appunto dal v. 33: "nei cieli". Se invece restiamo servi, allora diveniamo amministratori. Non esiste forse titolo più bello per un cristiano chiamato a gestire ogni dono ricevuto da Dio senza mai dimenticare come nulla gli appartenga in modo originario e perenne. Noi siamo amministratori di un bene che non possediamo in senso assoluto ma siamo allo stesso tempo al servizio di un Signore che ci vuole porre a capo di tutti i suoi beni (v. 44). Di nuovo, per terminare dove abbiamo iniziato, al Padre è davvero piaciuto affidarci il suo Regno.
VITA PASTORALE N. 7/2010 (commento di Claudio Arletti,
presbitero della arcidiocesi di Modena-Nonantola)
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