Pentecoste (C)


ANNO C - 23 maggio 2010
Pentecoste

At 2,1-11
Rm 8,8-17
Gv 14,15-16.23b-26

LO SPIRITO È IL PRIMO
E L'UNICO TESTIMONE

Per quanto pastoralmente la solennità odierna sia spesso accostata al sacramento della Cresima, alla cui liturgia "presta" la prima lettura, tratta dagli Atti degli Apostoli, l'evento della Pentecoste racchiude in sé tutta la ricchezza dei misteri della nostra fede. Esso richiama anzitutto il battesimo che ci ha santificati, ma non meno il Pane del cammino, viatico del nostro pellegrinaggio, consacrato e consacrante in virtù del medesimo Spirito. Potremmo dire lo stesso del sacramento del Matrimonio, Pentecoste che rende una coppia piccola Chiesa domestica, come anche dell'Ordine sacro nei suoi tre gradi, del Sacramento del perdono o dell'Unzione agli infermi.

D'altronde la vita cristiana, come ricorda Paolo, o è vita secondo lo Spirito che abita in noi oppure non può piacere a Dio (Rm 8,9). Noi non siamo "debitori" dunque verso la carne per vivere secondo la carne (Rm 8,12). Siamo "debitori" a Dio della grazia dello Spirito. Secondo le parole del vangelo, esso è l'altro "Paraclito", mandato dal Padre che sarà con noi per sempre (Gv 14,16). Lo Spirito ci è ottenuto dall'intercessione del Cristo. La sua effusione è lo scopo e il termine della missione del Cristo. In definitiva lo scopo dell'Incarnazione è portare fino in fondo quel fuoco che, dalla narrazione del Battesimo di Cristo fino alla pagina di Atti 2, viene identificato con lo Spirito. È un fuoco che incenerisce l'uomo e la creazione e da questa cenere fa sorgere l'uomo nuovo e la creazione nuova. Il gruppo chiuso nel cenacolo è come trasformato fin nelle radici dal vento dello Spirito e dal fuoco che si posa su ciascuno dei Dodici.
Il testo evangelico proposto dall'odierna liturgia mostra uno degli aspetti del Cristo forse da noi meno considerato. L'effusione dello Spirito non è solo il termine e il compimento di tutta l'opera di Dio, ma anche l'oggetto di una vera e propria ansia da parte di Gesù. L'uomo di Nazareth è divorato dal desiderio di trasmettere a tutto l'uomo e a tutta la creazione lo Spirito di Dio. Si pensi a quel breve versetto lucano in cui il Signore dice: "Sono venuto a portare il fuoco sulla terra e come vorrei che fosse già acceso!" (Lc 12,49). Il grande discorso giovanneo dei capp. 14-16 non fa altro che preparare il piccolo gruppo a questo grande evento. C'è come una sorta di impazienza di comunicare a tutti e senza ritardo lo Spirito di Dio. Solo lo Spirito, infatti, può insegnare "ogni cosa" e ricordare tutte le parole del Maestro (Gv 14,26). La prospettiva lucana è differente. Mentre in Giovanni tutto si salda: passione, morte, risurrezione ed effusione dello Spirito, negli Atti degli Apostoli la Pentecoste rimane l'ultimo e definitivo intervento di Dio, al termine dei cinquanta giorni, analogamente al dono della Legge per Israele, cinquanta giorni dopo l'uscita dall'Egitto. Come sul Sinai il dono delle due tavole aveva posto una rottura con quanto precedeva inaugurando il tempo del Patto d'amore tra YHWH e Israele, così la Pentecoste narrata da Luca trasforma la primitiva Chiesa e ciascuno dei suoi membri rinviando ormai alla Parusia senza che si debba attendere altro compimento delle promesse divine.
C'è dunque una straordinarietà sottolineata da Luca, relativamente all'effusione dello Spirito. Giovanni invece ci riporta alla sua ordinarietà. Gesù insiste sull'invio del Paraclito quasi come atto intimamente legato alla sua dipartita dai Dodici, senza clamore, con una sorta di persistenza. La Pentecoste non è avvenuta solo in quell'istante supremo che Luca descrive come il culmine di tutti gli eventi della storia della salvezza ma permane in una continuità stabile e ordinaria perché ormai si identifica con tutto il tempo della Chiesa e, attraversandolo tutto, già si inserisce nell'eterno. La solennità che celebriamo ha senso se viviamo tutto il tempo che ci è dato come possibilità di offrire reale dimora allo Spirito che incessantemente ci è offerto. La nostra timidezza nell'annuncio, la fatica nel comprendere e ricordare esistenzialmente, non meccanicamente, la parola di Gesù non sono forse segni dell'incompiutezza dello Spirito in noi? Più che nei Dodici, dovremmo forse riconoscerci nelle folle, spettatrici dell'effusione di Pentecoste, le quali stupiscono e si meravigliano, ma come restando alla soglia della vera fede e della vera adesione all'opera di Dio. Il soffio del Padre è vita. Ogni qualvolta abbiamo una sensazione di morte davanti alla pratica della fede o percepiamo un difetto di vitalità nelle nostre assemblee possiamo intenderci come regrediti all'interno del cenacolo, ancora lontani dall'illuminare e dallo scaldare i cuori di chi ci sta intorno.

Conduciamo una vita secondo la carne, rispondente ad altre logiche e dinamiche, per quanto camuffate da esistenza nella fede. Noi non possiamo essere altro che testimoni echeggianti di una risonanza interiore che vibra in noi per virtù dello Spirito. Diversamente siamo afoni. Oggi e sempre ogni nostra assemblea è radunata nel cenacolo, in attesa non tanto del compimento della promessa divina quanto piuttosto per confessare la propria povertà interiore e supplicare il Padre affinché ci dia di accogliere fino in fondo la Forza che discende dall'alto e che risveglia come Spirito di Risurrezione il Cristo nei nostri animi. Lo Spirito è infatti il primo e l'unico testimone fondamentale la cui voce attraversa tutti i secoli e parla attraverso la coscienza di ciascuno. Non vi sarà altra testimonianza efficace resa al mondo dalla Chiesa che non sia la testimonianza che lo Spirito offre riguardo al Padre e al Figlio.


VITA PASTORALE N. 4/2010 (commento di Claudio Arletti,
presbitero della arcidiocesi di Modena-Nonantola)


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