V Domenica di Pasqua
At 14,21b-27
Ap 21,1-5a
Gv 13,31-33a.34-35
SIAMO ANFORE VUOTE
CHE DIO VUOLE RIEMPIRE
L'odierna pagina evangelica deve essere intesa alla luce di quanto abbiamo letto al principio del Triduo pasquale, nel vangelo della messa in cena Domini. Senza una chiara contestualizzazione, i versetti che ci sono offerti rischiano di restare incompresi. La narrazione della lavanda dei piedi muove infatti da un densissimo proemio teologico ed esistenziale allo stesso tempo. È uno squarcio irripetibile sull'anima e sul cuore del Figlio di Dio nella notte più alta della sua esistenza, prima dell'offerta assoluta di sé nell'innalzamento della Croce: "Prima della festa di Pasqua Gesù, sapendo che era giunta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, dopo aver amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine. Mentre cenavano, quando già il diavolo aveva messo in cuore a Giuda Iscariota, figlio di Simone, di tradirlo, Gesù sapendo che il Padre gli aveva dato tutto nelle mani e che era venuto da Dio e a Dio ritornava... » (Gv 13,1-3). Esiste un'intima connessione fra la coscienza di Gesù e i gesti che vengono descritti appena dopo le parole che abbiamo citato.
Tutto quanto Gesù sta per compiere è fortemente legato al senso profondo e ultimo della sua vita. È un fenomeno raro per noi che ci buttiamo nelle cose senza vedere bene, come perdendo l'orizzonte ultimo oppure riflettendo generosamente magari ad alta voce su grandi ideali ma senza riuscire a incarnarli. Qui invece Gesù è più che mai in contatto con la parte più profonda del suo essere. È come se l'oceano della sua coscienza fosse percorso da un fremito che lo muove e suscita delle onde che continuamente toccano i due estremi della sua vita: il Padre e i discepoli. I due grandi gesti che scaturiscono da tanta profondità sono la lavanda dei piedi ma anche il boccone dato a Giuda. Entrambi conoscono il rifiuto. Entrambi culminano nel precetto dell'amore consegnato alla piccola comunità da cui nascerà la Chiesa.
Il breve passo evangelico che viene oggi proclamato ci colloca al punto in cui Giuda esce e tutta l'avventura umana di Gesù sembra naufragare. Eppure proprio quella è l'ora della gloria poiché essa non è altro che la consistenza di Dio in quanto si manifesta per salvare. L'esordio di questa manifestazione potente è l'uscita dall'Egitto dove YHWH mostra la sua gloria su Faraone e il suo esercito. È una gloria che schiaccia il nemico e salva Israele. In Mosè che esce dalle acque del mar Rosso è prefigurata, certo, anche la salvezza dell'altro. Ma pare impossibile abbracciare tutti nell'unica redenzione. Il vangelo di Giovanni compie le Scritture e rivela appieno il volto della gloria di Dio. Proprio quando l'umanità scatena la sua violenza e il peccato di tutti infierisce sulla carne di Cristo l'amore del Padre, nello Spirito, assorbe quel male che vorrebbe cancellarlo e lo sconfigge attraverso il perdono e la riconciliazione. La gloria di Dio non brilla solo di fronte alle schiere potenti di Faraone. Brilla sommamente nella notte inaugurata dal tradimento di Giuda (13,30). "Era notte" quando il Figlio inizia la sua glorificazione e il Padre è glorificato in lui (13,31). Per cinque volte, quasi a cascata, risuona il medesimo verbo. Solo lo squallido gesto di Giuda ci offre la misura dello splendore con cui Dio oppone il bene al male.
Il comando dell'amore, immediatamente seguente, Legge che nasce dalla nuova e definitiva Pasqua, trova posto proprio qui come riflesso della Gloria che si sta manifestando. Il nostro amore sarà riflesso dell'amore trinitario. Siamo dispensati da inutili maratone di eroismo che trovano il loro fondamento solo nella nostra volontà di apparire o di sentirci in pari con Dio. Siamo chiamati all'amore vicendevole nell'istante in cui vi siamo anche abilitati. L'amore di Cristo, come già in 13,15, non sta di fronte a noi come un modello da imitare o un'opera d'arte da copiare. È dentro di noi e zampilla come una sorgente da cui può nascere un grande fiume. Possiamo tradurre così il v. 34b: "Sì, con l'amore con cui io vi ho amato, amatevi anche voi gli uni gli altri!». Dal "come", passiamo al "con". Noi battezzati non possiamo scambiarci altro amore che quello che Gesù ha riversato su ciascuno di noi, dal Padre, per mezzo dello Spirito.
L'amore effuso da un battezzato non è merce sua. Ha altra origine e altra provenienza. In altre parole, il rapporto tra l'amore di Dio e il nostro è di tipo genetico, non imitativo. Tanto moralismo che ha avvelenato il cristianesimo nasce da questa concezione della vita morale come imitazione, cancellando la partecipazione che ogni cristiano vive della Pasqua di Gesù, in forza della quale può raggiungere con il proprio dono ogni fratello. Noi siamo anfore vuote. Trabocchiamo solo quando lo Spirito riversato nei nostri cuori si effonde all'esterno, come buon profumo di Cristo. Certo l'amore reciproco e mutuo non è la forma d'amore che la Trinità ha vissuto nei nostri confronti: esso è gratuito e incondizionato. Ma la reciprocità nelle nostre relazioni conosce sempre sfasature e ritardi, scompensi e fatiche. È raro che nella coppia o in famiglia o nei rapporti d'amicizia vi sia perfetta reciprocità. Per questo occorre un amore incondizionato per consentire vera reciprocità. Serve un amore che attende e spera, che sa piangere e gridare perché l'altro ancora non comprende e non corrisponde. Come Dio attende la nostra risposta dandoci tempo e vita, così anche noi dobbiamo apprendere l'arte della vera relazione.
VITA PASTORALE N. 4/2010 (commento di Claudio Arletti,
presbitero della arcidiocesi di Modena-Nonantola)