II Domenica di Pasqua (C)


ANNO C - 11 aprile 2010
II Domenica di Pasqua

At 5,12-16
Ap 1,9-11a.12-13.17-19
Gv 20,19-31

IL DUBBIO LACERA
E TORMENTA LA FEDE

La seconda domenica di Pasqua, per antichissima tradizione, è chiamata "domenica di Tommaso". Come accade per le grandi solennità, il testo evangelico propostoci non muta, nonostante la ricorrenza domenicale lo permettesse e forse lo consigliasse per una più ampia esplorazione dei vangeli pasquali. Ma il mistero dell'unica Pasqua si dipana dalla corsa di Pietro e del discepolo amato fino all'ostinata incredulità di Tommaso. Essa si annida proprio dentro al collegio apostolico, esattamente nel luogo che riterremmo immune. Non diversamente da Giuda, anche Tommaso sa inquietarci, non tanto per la sua resistenza alla fede, ma per la posizione ufficiale che occupa. Il collegio apostolico ha conosciuto il tradimento quanto ha conosciuto il dubbio. L'incredulità che esige una prova e pretende un segno tangibile non è esclusa da luogo o circolo alcuno. Il dubbio sfiora ogni cuore, ateo o credente che sia, e le parti finiscono a volte per scambiarsi e confondersi.

D'altronde, il timore che chiude gli apostoli dentro il cenacolo non è forse una forma di dubbio in chi dovrebbe infondere più coraggio e determinazione? La gioia che essi provano è determinata né più né meno che dall'esperienza che Tommaso reclama perché non ha potuto viverla. La fede degna della ricompensa che è la beatitudine (v. 29) non appare in questa pagina evangelica tanto in Tommaso, quanto negli altri dieci. Che differenza esiste infatti tra i catenacci che sbarrano la porta del cenacolo e la diffidenza che serra il cuore di Tommaso? La mediocrità della nostra azione pastorale e la sua spenta rassegnazione non è pure una forma di dubbio nella forza del Vangelo che salva? Se credessimo davvero non saremmo capaci di trasmettere la fiamma della fede? Noi siamo il lucignolo fumigante che il Signore ha misericordia di non spegnere. La zizzania, ragionando, non ci dovrebbe essere. Ma quando c'è, è così vicina al buon grano che a sradicarla si rischia di sradicare anche quello. La sapienza divina conosce bene tutto questo. Il Cristo, comunque, mostra di non offendersi dell'incredulità di Tommaso. Piuttosto, ne fa un argomento per la nostra fede. Se conosciamo la beatitudine della fede che non ha veduto è proprio grazie a questa ostinazione.
Non è vero che al Signore dispiacciano certe resistenze. Egli non sempre domanda o pretende una resa al primo assalto della grazia, come accadde per san Paolo. Che soldato potrebbe essere a favore della causa evangelica chi non ha mostrato nessun attaccamento, nessuna fedeltà, nessun impegno, anche se mercenario, alle proprie convinzioni? La vittoria di Tommaso, come quella di Paolo, sarà cedere alla grazia e permettere il suo dilagare. Ma una fede che non sia libera e virile non è neanche una grande virtù. La salvezza che ci dà la fede ha un prezzo infinito: ma che sarebbe una salvezza non liberamente accolta? È questa la sensazione che nasce davanti a una pratica stanca quanto inconsapevole, ereditata o subita dai propri familiari. Essa ci appare irriflessa quanto abitudinaria, costante solo nel navigare a vista, senza osare mete più ardite. Magari fosse sfiorata dal tarlo del dubbio che pungola, che spinge a cercare e a domandare senza posa. Quanto appare desiderabile anche per noi l'esperienza del dubbio che avvolse l'agnostico Charles de Foucauld. Egli pregava dicendo: «O Dio, se tu esisti, fa' che io ti conosca».
Dio vuole la nostra collaborazione alla sua opera redentrice: ora uno schiavo non sarà mai un collaboratore. Egli vuole essere servito, adorato e amato da uomini liberi. Non esiste alternativa a questo. L'amore nasce e germina solo in un contesto di libertà. Il cedimento di Tommaso all'insistenza con cui il pastore richiama la propria pecora fa supporre che egli abbia proceduto sulla via della fede fino al martirio. La sua professione di fede è considerata la più alta e radicale di tutto il Nuovo Testamento (v. 28). Gesù è riconosciuto come Signore e Dio. Non v'è altra frontiera che possa essere raggiunta. Eppure è stata toccata da chi ripeteva ostinatamente le proprie condizioni, quasi che il Maestro dovesse sottostarvi assolutamente. La fede, in Tommaso, ha assunto la stessa maestà del dubbio. Neppure una stilla di differenza. Per questa ragione ci sentiremmo di supporre che Cristo abbia potuto contare davvero sull'ultimo degli increduli giunto alla fede molto più che non sul primo dei fedeli a lasciare, forse troppo velocemente, la schiera dei dubbiosi.

Ci sono prostemazioni facili che cedono alla prima difficoltà. I tipi come Tommaso ci mettono tempo a inginocchiarsi. Ma quando si inginocchiano, lo fanno veramente. Quando amano, amano veramente. La fede di questi uomini ha un gusto quasi aspro eppure richiama in modo straordinariamente vivido la libertà divina a immagine della quale siamo stati creati. Tommaso non rinuncia al suo mestiere di uomo neanche di fronte al mistero di Cristo glorioso. Non è uno schiavo supino, ma un uomo. Quando Tommaso si offre, è un uomo che si offre. E se offre a Cristo il suo cuore, è un cuore di uomo che si offre. Se china la sua testa davanti a lui, è una testa di uomo che si china. Non è la violenza del rifiuto che ci spaventa oggi, come Chiesa. È l'indifferenza che neppure volge lo sguardo, neppure accetta l'invito a mettere la mano sul segno dei chiodi. Quella mano, quel costato, semplicemente, non interessa più. Dobbiamo avere nostalgia, come comunità cristiana, di tipi come Tommaso.


VITA PASTORALE N. 3/2010 (commento di Claudio Arletti,
presbitero della arcidiocesi di Modena-Nonantola)



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