IV Domenica di Quaresima
Gs 5,9a.10-12
2Cor 5,17-21
Lc 15,1-3.11-32
L'AMORE RITROVA
QUANTO HA PERDUTO
Con il capitolo 15, Luca raggiunge un vertice dottrinale, chiamato a volte il "Vangelo nel Vangelo". È la descrizione del cuore di Dio, che vuole che anche l'ultimo posto alla sua tavola sia occupato. La parabola del Padre misericordioso è il coronamento dell'intera sezione che precede e prepara tutto quanto segue fino al compimento pasquale. Esiste infatti un gonfiore nell'uomo (si veda l'idropico di 14,1-6) che impedisce il suo accesso per la porta stretta (13,22-24). La porta stretta non è il sacrificio o la rinuncia, ma la mediazione del solo Cristo, volto dell'amore folle del Padre, unico salvatore del mondo, che l'ipocrita falsamente devoto rifiuta, gonfio della propria giustizia, delle proprie buone opere, merce per contrattare con Dio. L'ipocrita interpreta l'elezione e i benefici di Dio come un privilegio che gli garantisce, nella storia della salvezza, il primo posto (14,7-11).
Il capitolo 15 contiene allora tre parabole, nate dallo scandalo creato dal comportamento di Gesù, che non sta con i giusti o presunti tali, ma banchetta con i peccatori (15,1-2). Ciò che scribi e farisei non sopportano è la sua misericordia. Per trovare però gretto e meschino il comportamento di scribi e farisei dovremmo dimenticare tutto l'AT. La loro reazione, per certi versi, è perfettamente biblica. Basti pensare al mondo dei salmi e al suo rapporto con i "peccatori" (cf ad esempio Sal 1,1; 3,8; 7,10; 9,18; 10,15). Sono solo alcune delle 90 ricorrenze del termine "peccatore" nel salterio dove non si parla certo di misericordia o di perdono, ma del compimento della divina giustizia. La fede del giusto, del fedele, manifesta la sua verità quando riconosce e rigetta quello stile di vita fondato sul rinnegamento di Dio e dell'ordine che egli ha stabilito nel mondo, ordine morale e spirituale. Ma ora Gesù sovverte questo pilastro della religione d'Israele. La porta attraverso cui entrare si fa sempre più "stretta".
L'introduzione alle tre parabole, il v. 3, ci aiuta dunque a capire a chi siano rivolte e come debbano essere interpretate. Le parabole non sono pronunciate per i peccatori: essi sono già con Cristo, perché sanno di avere bisogno di lui. Sono pronunciate per coloro che mormorano, scribi e farisei (15,2). Questa, secondo il messaggio del capitolo 15, è la lontananza più dura da vincere. La conversione del giusto è la conversione di Paolo, la più tribolata ma anche la più importante del NT. In questo senso, il cuore della terza parabola, la più estesa e toccante, non è certamente la fuga del figlio minore: nella narrativa del Vicino Oriente antico, era sempre l'ultimo di una serie di casi a costituire il centro del racconto. È fuori luogo, dunque, l'enfasi attribuita al figlio minore, da cui spesso l'intera narrazione prende il nome. La parabola risponde alla mormorazione dei "giusti" indicando chiaramente quando Dio fa festa e che cosa rappresenti la gioia di Dio: è ritrovare quanto ha perduto, è la conversione del peccatore. La gioia divina è inspiegabile e incontenibile. Dio ama chi non lo ama. Poiché l'uomo è incapace di ritrovare Dio, è Dio che si pone sulle tracce dell'uomo.
Ora, se l'atteggiamento di Gesù è quello del padre della parabola, immagine di Dio, il messaggio per gli uditori era chiaro: in lui, nel Figlio, il Padre rendeva presente la sua misericordia ai peccatori. Il Cristo che mangia con loro è il segno di Dio che fa festa con chi è stato ritrovato. Già l'apertura del racconto ci consente di intuire che tutta la parabola sarà giocata sul rapporto tra l'uomo e i due figli. Essi sono qualificati bene. Non così l'uomo. Egli è padre, se ha due figli. Ma non ci sarà nulla di così contestato e problematico come il titolo di quest'uomo, il titolo di padre, che pure sembrerebbe scontato.
Le due grandi scene esordiscono sempre alla terza persona. Ma il narratore darà voce comunque ai personaggi che ci presenteranno la loro interpretazione della realtà, perché proprio la paternità di quest'uomo è soggetta ad almeno due interpretazioni devianti. Sempre chiuderà la parola del padre. È la sua versione che chiede di imporsi anche se ci sono tre protagonisti. L'uso che il narratore fa dei nomi è neutro. Ma procede in questo modo per lasciare agli attori il compito di mostrare come essi si situano. Non è un caso che il minore chiami l'uomo "padre" e che il padre utilizzi la parola "fratello" parlando con il maggiore. Egli è padre e vuole che i figli si considerino fratelli. Ma mai il maggiore pronuncia le parole "padre" e "fratello".
Significativa, biblicamente, è anche la presenza del "vitello" (vv. 23.27.30) e del "capretto" (v. 29). Si tratta di due animali deputati al sacrificio. Sono due possibili vittime cultuali. Lo stesso festoso banchetto paterno (v. 23) è un banchetto sacrificale, come suggerito anche dal verbo greco tradotto con "ammazzatelo", da rendere con "immolatelo". L'amore che il Padre ci offre è un amore oneroso. È la croce del Figlio, vitello offerto per ogni figlio minore che intraprenda la strada del ritorno, capretto dato a ogni figlio maggiore che rivendica segni di predilezione. Il ritrovamento dei due figli diversamente lontani ma egualmente perduti, verso i quali il padre esce (vv. 20.28) coincide con la perdita del Figlio chiamato "prediletto" nella scena del battesimo ed "eletto" in quella della trasfigurazione. Questo amore totale che sa perdere per ritrovare è l'amore che siamo chiamati a contemplare nel nostro cammino quaresimale, fino al compimento della Pasqua.
VITA PASTORALE N. 2/2010 (commento di Claudio Arletti,
presbitero della arcidiocesi di Modena-Nonantola)