III Domenica di Quaresima (C)


ANNO C - 7 marzo 2010
III Domenica di Quaresima

Es 3,1-8a.13-15
1Cor 10,1-6.10-12
Lc 13,1-9

LA QUARESIMA È TEMPO
DI OCCASIONI PROPIZIE

La conversione è il tema centrale di questa terza domenica di Quaresima. È evidente nel testo evangelico, ma è ben presente anche nelle altre due letture. La prima narra la svolta decisiva della vita di Mosè. Costui, ormai adagiato sul proprio quotidiano, viene interpellato da Dio. La sua prima conversione è alla curiosità. Mosè vuole vedere. Il cambiamento a cui lo chiamerà YHWH sarà invece quello di guardare, non solo vedere, fino in fondo la schiavitù in cui versa il suo popolo, condividendo la sollecitudine divina e il progetto di liberazione anche oltre a quelle che paiono le sue concrete possibilità.
La seconda lettura presenta la storia della salvezza come è narrata dalla Bibbia al fine di scuotere una comunità troppo sicura di sé. La comunità fondata da Paolo e gli ebrei nel deserto si somigliano profondamente. Per questo l'esperienza del popolo all'uscita dall'Egitto deve essere assimilata senza risparmio. Tutto ciò che fu scritto è stato scritto - dichiara Paolo ai Corinzi - perché essi vi "pongano mente", rendendo il greco in modo più letterale (1Cor 10,11). L'approccio ai testi sacri è per la conversione, non per la semplice informazione. È un ammaestramento da non perdere, al fine di trarne giovamento spirituale. Nella prima, come nella seconda lettura, Dio visita l'uomo attraverso una visione o attraverso i testi sacri per smuoverlo alla ricerca di una fedeltà più autentica.

Anche il vangelo muove dal vissuto concreto di chi si presentò pieno di timore per esporre a Gesù un inquietante fatto di cronaca. Al vano parlare, chiacchierare e divulgare quanto accaduto quasi che servisse da esorcismo per allontanare la disgrazia, Gesù oppone una lettura spirituale dei fatti riferitigli, rilanciando con affermazioni che vanno oltre quanto gli è stato raccontato. Se, infatti, la morte di coloro il cui sangue Pilato mischiò a quello dei loro sacrifici è ascrivibile alla nota crudeltà del procuratore romano o all'attività sobillatoria dei galilei messi a morte, i diciotto su cui è rovinata la torre in Siloe come avrebbero potuto scampare alla rovina? Essi non hanno colpa. Gesù lo afferma senza mezzi termini. L'inquietudine di chi ha interpellato il Maestro non poteva che aumentare a questo punto. Inutile chiamare in causa qui la categoria di peccato, facendo ancora una volta del Dio biblico l'alleato dei forti contro le vittime, le quali, sempre e comunque, sono colpevoli vista la loro fine.
Ancora più chiaramente, con Gesù, YHWH appare proprio come il Dio delle vittime, non il Dio che sancisce, attraverso eventi imperscrutabili, il giudizio umano: ognuno, comunque, meriterebbe in un modo o nell'altro la morte che fa. Non è così. I diciotto non erano più "debitori", letteralmente, dei restanti abitanti di Gerusalemme. La morte dell'altro, comunque sia avvenuta, un giorno sarà anche la mia. Essa, senza conversione e adesione a Dio, è sempre violenta come il delitto compiuto da Pilato o rovinosa - oltre che improvvisa - come il crollo di una torre. Se l'uomo, invece, è radicato in Dio cresce come una pianta di fico che porta frutto. Qualunque tempo è tempo di raccolta e i frutti ricevono il valore eterno che possiede ogni atto d'amore. La morte, allora, sigilla una vita carica di frutti. La vera tragedia è quella morte spirituale che è aridità interiore. Un fico senza frutto che senso ha? La venuta di Gesù non è anzitutto il tempo del giudizio, ma il tempo della misericordia.

In Luca 4 tale tempo è definito dalle parole di Isaia: «anno di grazia del Signore». È l'anno in più che invoca il vignaiolo presso il padrone deciso a tagliare il fico. Accade che Dio cerchi presso l'uomo e non trovi (v. 6). Non accade mai il contrario: che l'uomo cerchi presso Dio e non trovi grazia e misericordia. Gesù Cristo è il volto dell'ingiustizia amorosa del Padre che non compie quanto potrebbe e dovrebbe legittimamente fare, ma sa attendere ancora. Vale la pena qui fare un importante inciso: una parabola non è un'allegoria dove ogni personaggio del racconto debba trovare un corrispondente nella realtà. Diversamente dovremmo trovare una identità al "cattivo" padrone della parabola all'interno del rapporto Padre-Figlio. Il dialogo fra i due personaggi ha invece lo scopo di evidenziare il supplemento di attesa che Dio vive nei nostri confronti. Egli rinuncia al giudizio e pratica quella pazienza che non è semplicemente rimandare una scelta. La pazienza non è solo attesa. È la fatica raddoppiata dell'amore. La cura di Dio è onerosa: è impegno e concreto lavoro.
A noi spesso è chiesta semplicemente la curiosità di Mosè e la sua volontà di capire meglio. È l'unico sforzo che ci vien chiesto, perché possiamo udire una parola in più attraverso i nostri cammini parrocchiali. Esso, a volte, non coincide con una ricerca pura e disinteressata di Dio, ma egli sa servirsi delle nostre incomplete motivazioni per condurci dove non avremmo mai immaginato. La Quaresima è tempo denso di occasioni propizie per esercitare una sana curiosità nei confronti della Parola rivolta a noi, figli, dal Padre celeste. Questo favorevole tempo di grazia è il momento in cui lasciarsi riconciliare con Dio, lasciarsi coltivare, curare da quella passione divina che mai si consuma, pur bruciando intensamente. Il vero roveto ardente è il cuore del Padre, come apprenderemo domenica prossima dal testo evangelico. Il cuore di Dio mai si rassegna alla perdita anche solo di uno dei suoi figli. Non sono le fiamme dell'Inferno il fuoco che ci attende: è invece l'ardore della misericordia di Dio che ci sprona a conversione.



VITA PASTORALE N. 2/2010 (commento di Claudio Arletti,
presbitero della arcidiocesi di Modena-Nonantola)



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