II Domenica di Quaresima
Gen 15,5-12.17-18
Fil 3,17-4,1
Lc 9,28b-36
NEL FIGLIO, L'ELETTO
IL PADRE SI COMPIACE
Come già per la prima domenica di Quaresima, anche la seconda ci offre un episodio ricorrente: la contemplazione della Trasfigurazione di Gesù. È perciò fondamentale cogliere la coloritura tipicamente lucana del racconto per non annullare le differenze che esistono tra i Sinottici e mettere a fuoco lucidamente il messaggio proprio del terzo vangelo. Esiste di certo un nesso profondo tra la realtà della tentazione e l'evento della Trasfigurazione. È come se già nelle prime due domeniche del nostro cammino ne fossero fissati gli estremi. Chi si reca nel deserto per essere tentato (Lc 4,1) è il medesimo che sale sul monte per pregare e cambiare d'aspetto (Lc 9,28).
Colui che sale sul monte per manifestare la propria gloria tuttavia non può non passare per il deserto della tentazione. Non c'è vera preghiera che possa sottrarsi al confronto con il male e l'idolatria. Né c'è vera gloria se non come frutto di un "esodo" che affronti e assorba il peccato commesso da Adamo fino all'ultimo dei suoi figli, tema della domenica passata. Tentazione e preghiera che divengono splendore sono due passi ineliminabili del cammino spirituale di ogni uomo che voglia servire Dio. Come il secondo non può darsi senza il primo, allo stesso modo non avrebbe senso una lotta contro il male che non fosse anche divinizzazione dell'uomo. Dio ci ha redenti perché partecipassimo della sua bellezza e della sua gloria. Egli ha assunto la nostra natura, perché noi assumessimo la sua.
Il principio della "gloria", nota tipicamente lucana nell'episodio (9,31.32), è comunque la preghiera. Dobbiamo iniziare da qui perché solo Luca colloca l'evento della trasfigurazione in un contesto orante. È nella preghiera, come già il terzo vangelo aveva narrato riguardo al Battesimo di Gesù (3,21-22), che la figliolanza del Messia risplende in modo sublime. Nel Battesimo, come ora nella Trasfigurazione, la pietà filiale di Gesù apre i cieli e consente di udire la voce stessa del Padre. Nel Battesimo il Figlio era l' ''Amato'' (3,22). Ora è l' "Eletto", Colui al quale il Padre domanda di compiere l'ultimo e definitivo Esodo (9,31). La figliolanza altro non è che incondizionata obbedienza. Dalla preghiera scaturisce sempre la rinnovata coscienza della propria missione. Così è del Cristo, che il Padre invita i discepoli ad ascoltare proprio in forza di una autorità che Gesù stesso matura nell'ascolto e nell'obbedienza. Sullo sfondo, la meta è Gerusalemme, luogo della Pasqua.
La preghiera, suggerisce ancora la nostra pagina, è l'esperienza dell'ottavo giorno (9,28). Marco e Matteo parlano invece di sei giorni. La preghiera appare dunque in questo brano come esperienza nel tempo e fuori dal tempo, esperienza che dilata il ciclo settimanale permettendogli come di lambire la fine della storia e accedere all'eternità. L'istante della preghiera, azione per eccellenza dell'ottavo giorno, è trasfigurazione. Per questo, come già accennato, Gesù muta d'aspetto, davanti ad alcuni testimoni prescelti, proprio nell'atto del pregare (9,29). Questo permette di non leggere la Trasfigurazione solo come anticipo di una gloria futura che verrebbe mostrata quasi come caparra, ma come esperienza accessibile anche in vita, quando l'uomo decide di invocare il Padre e riconoscerne il mistero d'amore.
In questo modo possiamo leggere nel racconto lucano la presenza di Mosè ed Elia, i quali appaiono "in gloria" (9,32). Certamente essi rappresentano la Legge e la Profezia che rendono testimonianza al compimento avvenuto nel Figlio di Dio. Sono anche figure escatologiche, attese nei tempi ultimi. Ma sono non di meno figure di grandi contemplativi che, sul monte, hanno incontrato il Dio vivente. Mosè visse la propria trasfigurazione nella luce che emanava il suo volto dopo la preghiera. Elia si coprì il volto davanti alla voce di un silenzio sottile, sull'Oreb, dopo quaranta giorni e quaranta notti di cammino. I due sono, per eccellenza, i mistici della Prima Alleanza. Ma né l'uno né l'altro sono il Figlio Eletto, la cui voce è voce stessa del Padre. Esiste un fascino potente nella preghiera. È quello che subisce Pietro, assieme a Giacomo e Giovanni.
Come Abramo nella prima lettura, i tre sperimentano il sonno che coglie l'uomo davanti all'epifania divina. Ma attraverso la vigilanza, essi gustano a tal punto la bellezza del Figlio dell'uomo da desiderare di trattenerla. Il senso delle tre tende o capanne è proprio questo. Se Gesù parla con Mosè ed Elia di un esodo che ha da "compiersi" (v. 31), come ogni parola divina, Pietro non vede null'altro se non il fascino dell'istante. Appagato dalla consolazione di Dio, vorrebbe fermare il tempo e trattenere una grazia che Dio concede in pienezza solo al termine del cammino, non certo ai suoi inizi. Per questo proprio alle sue parole deve sopraggiungere una nube, che tolga il privilegio del vedere e invece obblighi a udire una voce che altro non chiede se non di udire ancora e prestare ascolto all'Eletto di Dio. La presenza di Dio non è solo luce sfolgorante e svelamento della sua gloria. Lo stesso Dio ci avvolge come una nube. Il verbo greco utilizzato qui da Luca è il medesimo con cui Gabriele annuncia alla Vergine l'azione dello Spirito su di lei. La grazia divina scenderà dentro di noi, ma senza che tutto sia trasparenza chiara e distinta. Il mistero rimane. Tra luce e tenebre deve consumarsi la nostra preghiera, inizio del cammino di obbedienza al Figlio di Dio fino a quando anche il nostro Esodo non si compia.
VITA PASTORALE N. 1/2010 (commento di Claudio Arletti,
presbitero della arcidiocesi di Modena-Nonantola)