I Domenica di Quaresima (C)


ANNO C - 21 febbraio 2010
I Domenica di Quaresima

Dt 26,4-10
Rm 10,8-13
Lc 4,1-13

LE TENTAZIONI PER UN
MESSIANISMO DIVERSO

La versione lucana delle tentazioni segue da vicino quella di Matteo, cambiandone però già l'inquadratura. L'episodio, in Luca, segue alla genealogia (3,23-38) e precede immediatamente la predicazione inaugurale di Gesù (4,14-30). Nulla di simile in Matteo dove le tentazioni seguono al racconto del battesimo e precedono la chiamata dei primi discepoli. La genealogia lucana, fra l'altro, differisce non poco da quella matteana. Gesù, secondo il primo vangelo, è anzitutto figlio di Davide e figlio di Abramo (Mt 1,1): la sua relazione fondamentale è con il popolo dell'alleanza e delle promesse. In Luca troviamo un lungo elenco di nomi che, a ritroso, ci conduce da Giuseppe fino ad Adamo, per concludersi con Dio stesso (Lc 3,38). Gesù è Figlio di Dio, come vedremo anche nel racconto.
Ma è pure figlio di Adamo, il primo uomo simbolo della tentazione subita e di come la libertà umana possa soccombere davanti alle suggestioni del maligno. Se è vero che non possiamo comprendere i quaranta giorni e il deserto prescindendo dalle prove patite da Israele durante l'Esodo, è altrettanto vero che il deserto richiama la condizione a cui viene ridotta la terra, proprio a causa del peccato, luogo inospitale e difficilmente lavorabile. Non solo, Gesù davanti a Satana è molto più vicino ad Adamo, tentato assieme a Eva, nella solitudine, rispetto a un intero popolo che cammina verso la terra promessa. Gesù è davvero figlio di Adamo. Come tale, non poteva non essere tentato quanto al proprio progetto esistenziale. La solitudine che ognuno di noi vive davanti all'evento interiore e mentale della tentazione è stata vissuta anche da Cristo.

Allo stesso modo, l'annuncio nella sinagoga di Nazaret assume dalla vittoria di Gesù sulle tentazioni il suo significato più pieno. Colui che ha su di sé lo Spirito del Signore, il medesimo Spirito con cui ha affrontato il duello con Satana (4,1), annuncia una liberazione credibile ai prigionieri e una vera libertà agli oppressi (4,18). L'uomo è schiavo dei propri idoli, accecato, imprigionato e spogliato della propria dignità di figlio di Dio. Il Messia che entra a Nazaret è davvero l'emblema della libertà dal falso volto di Dio, liberamente suddito del regno del Padre. Luca infatti concepisce la lotta tra Dio e il potere del male come un dissidio tra due regni. Il diavolo esercita una reale autorità su quelli che egli governa (4,6). Il suo regno-ombra scimmiotta quello di Dio. Questa è l'idolatria: moneta falsa offerta al Messia sotto forma di seduzioni estremamente allettanti in quel travagliato periodo. Pensiamo all'opzione violenta, militare e zelota che traduceva le aspettative messianiche in tentativi di sanguinosa rivolta. Tutto questo è radicalmente respinto, proprio in epoca di fermenti guerrafondai.
Ma non dimentichiamo il lettore ellenistico a cui Luca si rivolge e al suo retroterra filosofico. Nelle tre tentazioni possiamo vedere l'immagine di tre fondamentali vizi: ricerca del piacere, attaccamento ai beni materiali, brama di gloria. Tuttavia Gesù non è solo un saggio maestro veramente degno di insegnare la virtù. Gesù affronta un volto, non semplicemente dei vizi, un volto che si pone come alternativo a quello del Padre suo. Gesù vince la battaglia del cuore. Non v'è battaglia più fondamentale: questo ci chiama a comprendere il passo delle tentazioni in apertura del cammino quaresimale. Gesù non sarà mai ministro del diavolo. Egli è ministro del regno di Dio, sottomesso a Colui che gli ha conferito l'incarico. La tripartita struttura del racconto culmina, a differenza di Matteo, a Gerusalemme, dove il diavolo tornerà al momento opportuno (4,13) per provocarlo sotto la croce, tre volte (23,35.37.39), e abbattere la sequela di Pietro, il cui triplice rinnegamento (22,54-62) trova qui un sinistro presagio.

Luca ha certamente grande interesse per la città santa. Ma il racconto non culmina a Gerusalemme solo a causa di una preferenza geografica. La terza tentazione è quella più impegnativa perché mina, a colpi di Scrittura, la base stessa della posizione di Gesù. Il diavolo vuole che il Cristo verifichi la propria figliolanza a fronte della promessa di Dio di proteggerlo. È diverso sfruttare la propria posizione per cambiare la pietra in pane. Allo stesso modo il male è evidente laddove il Messia dovrebbe prostrarsi a Satana in cambio di un potere terreno. Sul punto più alto del Tempio, Satana mette Gesù di fronte al Padre suo, non davanti a proposte evidentemente effimere. Dio stesso ha comandato agli angeli di proteggere Davide dall'inciampare nelle pietre. Forse non proteggerà suo Figlio?
Eppure, che cos'è l'obbedienza di Gesù se non un salto nel buio? È la vertigine della fede: credere in Colui che è presenza, senza esigere una prova immediata e tangibile. Sarà la vertigine del Golgota: là il Figlio affiderà il proprio spirito nelle mani del Padre quando esse l'hanno apparentemente abbandonato in quelle dei giudei, di Pilato e infine dei carnefici. La terza tentazione esige come unica reazione la nudità della fede. Gesù replica con le parole altissime di Dt 6,16, vera consegna a Israele prima dell'ingresso nella terra promessa: "Non tenterai il Signore Dio tuo". La fede è attesa, dilazione nella pretesa che il Padre agisca secondo tempi e modalità che potremmo anche pretendere come legittimi proprio in base alla sua Parola. Nella terza tentazione c'è tutto il dramma della Pasqua, delle nostre preghiere inascoltate, del nostro sconforto davanti al silenzio di Dio, del nostro non comprendere.


VITA PASTORALE N. 1/2010 (commento di Claudio Arletti,
presbitero della arcidiocesi di Modena-Nonantola)


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