I Domenica di Avvento (C)


ANNO C - 29 novembre 2009
I Domenica di Avvento

Ger 33,14-16
1Ts 3,12-4,2
Lc 21,25-28.34-36

VIENE LO SPOSO
A SIGILLARE LA STORIA

Il nuovo anno liturgico non si apre in modo molto diverso da come si conclude il precedente. Prima della solennità di Cristo Re i testi evangelici e non solo focalizzano la nostra attenzione sulla fine dei tempi. Spesso ascoltiamo brani dal chiaro sapore apocalittico o escatologico. Ora, l'Avvento non muta il tono. Anzi, accade di ritrovare al principio del nuovo anno e dell'Avvento, motivi e immagini da poco uditi. Il principio e la fine vengono come a coincidere nell'attesa del Veniente. Non v'è attimo che possa essere sottratto al senso che riceve da colui che è Alfa e Omega. Dunque il tempo che oggi si apre non fa che richiamare una dimensione imprescindibile del nostro vivere, propria di qualunque stagione o momento.
Se dovessimo rilevare la fatica più grande, tale da oscurare il nostro desiderio e la nostra attesa di Cristo, potremmo identificarla nell'aspetto drammatico che ha la sua venuta. La letizia del Natale da cui ci separano non molti giorni in questo senso può risultare un sentimento parziale. Serve una pagina come quella lucana per introdurci a fondo nel carattere "sismico" dell'Avvento. La venuta del Signore non coincide, infatti, con la soddisfazione di un qualche desiderio superficiale o con il compimento piacevole di qualche estetica aspettativa. È annunciato con chiarezza come in quel giorno il lato più fragile dell'universo emergerà senza alcuna ambiguità né possibilità di ritorno.
D'altronde, il mondo pare a noi stabile solo per le conseguenze che il peccato incide nella nostra mente. Il peccato è illusione che il creato sia più stabile del Creatore, che il finito possa sopravvivere all'Infinito. La sicurezza del mondo è illusoria. L'universo è precario; vive una trasformazione e vivrà una trasfigurazione nel giorno del Signore.

La parola di Dio che giudica la storia è più duratura del cielo e della terra. Un messaggio del genere oggi urta. Ciò che è passeggero viene ritenuto eterno e ogni anche piccolo imprevisto meraviglia come se i nostri meccanismi sociali e culturali mai dovessero incepparsi. Ma la precarietà del cosmo resta una verità essenziale a una cristiana concezione del tempo. Cosa significa dunque che vi saranno segni nel sole, nella luna e nelle stelle (v. 25)? A cosa allude l'impazzimento delle potenze dei cieli (v. 26)? È la fine di un ordine, di un regime celeste apparentemente incrollabile. Questo non è vero solo del firmamento. Vi sono astri nella mente di ogni uomo: punti fermi di una propria costellazione mentale. Ciascuno si aggrappa ad alcune certezze su cui intestardirsi, fissarsi a volte in modo patologico. Quando accade che, proprio tali certezze vacillano, pare che tutto crolli. È, in fondo, il modo in cui pensiamo, accostiamo i fatti e le persone ad essere guidato da tali punti fermi. Ma giunge un tempo in cui tutto inizia a cedere. Questo è il dramma annunciato dall'Avvento.
Tuttavia, proprio il crollo dei nostri sistemi permette di aderire all'unica roccia che rimane. Rende possibile l'affidamento a Cristo. Fino a quando il cammino personale non permette di scoprire che l'unica certezza è Cristo, tale cammino resta incompleto. Solo l'esperienza vitale permette di trasformare una affermazione del genere in realtà. Può essere facile proclamare che Cristo è la roccia della propria esistenza. A tavolino è tutto chiaro. Ma solo quando gli astri impazziscono giunge l'inesorabile verifica dell'adesione personale a Gesù di Nazareth. Dio può redimerci solo se favorisce un reale distacco dall'uomo vecchio che già è morto. Gli astri indicano anche nel cielo il trascorrere del tempo. Quando immaginiamo e programmiamo la nostra e altrui vita come se mai avesse fine, di fatto rendiamo eterne realtà transeunti. Viviamo dentro a settenari di giorni. Ma attendiamo l'ottavo.

La nostra fatica a entrare nell'ottavo giorno emerge in modo molto chiaro dall'atteggiamento con cui accostiamo la liturgia. Se esiste un tempo creato che accede al tempo increato e alla comunione eterna di Dio e dei santi, è proprio il tempo liturgico. L'unica liturgia è infatti quella del Verbo, presso il Padre, là dove si compie la Pasqua eterna. Ad essa partecipiamo. Tuttavia anche le nostre celebrazioni rientrano spesso semplicemente tra le cose che si sbrigano. Non sono momenti qualitativamente diversi. È un impegno fra gli impegni e una attività fra le attività. Non c'è percezione dell'ottavo giorno. Diremmo, citando il vangelo, che nessuna testa si leva e nessuna percezione dell'eternità irrompe nell'assemblea.
Non si può allora attendere Cristo senza la disposizione ad abbandonare le proprie certezze. Gesù invita ad alzarsi, a levare il capo nella certezza della Redenzione. Mentre la paura domina, nel credente si manifesta la gioia compiuta e definitiva. Servono allora segni concreti di attesa. Si dovrà vedere in quale modo attendiamo il Messia e la sua salvezza. Gesù descrive sia il vizio come la preoccupazione eccessiva per il quotidiano come l'appesantimento del cuore (v. 34). L'improvvisa venuta dell'ultimo giorno assomiglierebbe allora a un laccio capace di afferrarci. È la preghiera condotta avanti in ogni tempo a coincidere con la mobilità del cuore proteso a Dio (v. 36). Senza questa tensione interiore il nostro Avvento non potrà farci levare il capo incontro allo Sposo che sigilla i giorni e la storia.


VITA PASTORALE N. 9/2009 (commento di Claudio Arletti,
presbitero della arcidiocesi di Modena-Nonantola)


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