XXVIII Domenica del Tempo ordinario
Sap 7,7-11
Eb 4,12-13
Mc 10,17-30
SE LA RICCHEZZA
DIVENTA UN IDOLO
Il famoso brano dell'uomo ricco, propostoci oggi dal vangelo, non si discosta molto dal tema affacciatosi domenica scorsa: l'indissolubilità del matrimonio. È ancora in questione il modo e la misura con cui si appartiene all'altro. Ma questa volta non si tratta di mariti e mogli, ma di un possibile discepolo il cui slancio verso Gesù naufraga miseramente. Tale slancio è innegabile. Il v. 17 menziona sia la corsa che l'inginocchiarsi di colui che ripetutamente lo "interrogava". Non manca anche una certa compiacenza nel rivolgersi a Gesù, chiamato "maestro buono". Ma il Cristo rifiuta decisamente questo appellativo. Anzitutto vuole evitare un pericoloso gioco "a specchio": ammettere questo tale alla sua sequela, e dunque riconoscerlo come "buon discepolo" perché così il discepolo ha chiamato il maestro.
L'aspirante seguace cerca Dio o vuole piuttosto conferme al proprio itinerario spirituale? Gesù, potremmo dire, non si lascia adescare dalla captatio benevolentiae di chi gli è corso incontro. Anzi, lo potrà liberare da questo pericolo, non certo raro nelle persone devote e religiose, il cui rischio più grande è trasformare anche Dio in un sostenitore della propria posizione e delle proprie idee. Ma non è tutto qui. La frase del v. 18 con cui Gesù prende distanza dall'appellativo "buono" è il cuore del brano. Dio "solo" è buono. Come vedremo, una "cosa sola" (v. 21) manca all'uomo. Nelle parole apparentemente interlocutorie del Maestro, sono stati come riassunti ed enunciati i primi due comandamenti della prima parte del Decalogo, quelli riguardanti Dio e il nome.
Ora Gesù vuole verificare se la pietà di quest'uomo è astratta o reale. Come si può misurare l'amore verso Dio? Il primo e immediato sistema è verificare l'amore per i fratelli. Giovanni nella sua prima lettera lo afferma con chiarezza. Il rischio di Israele era stato, da sempre, separare le due tavole della Legge costruendo un culto lontano o addirittura ostile all'amore del prossimo. Questa è la grande polemica che i profeti incessantemente scatenano contro Israele per richiamarlo a un culto autentico. Nell'elenco di Gesù ci sono però due anomalie: manca il comando relativo al riposo sabbatico e il comando relativo all'onore dei genitori è posto alla fine, non al principio come dovrebbe, dunque in chiara posizione enfatica. L'ultimo precetto con cui l'uomo confronta la propria coscienza è il rapporto con il padre e la madre. Egli fin dalla giovinezza ha osservato tutte queste cose. La sua pietà, fino ad ora, è stata sincera. Ma è giunto il momento di un "salto". Egli stesso lo avverte. Sente di aver osservato la Legge, ma di come questo ora non basti più. L'amore con cui il Cristo lo fissa sembra imprimere nel cuore di chi gli sta di fronte l'energia necessaria al grande salto.
La proposta del Signore, con il senno di poi, suona quasi provocatoria: a un uomo ricco Gesù dice che "manca" qualcosa. Siamo di fronte a un concetto profondamente diverso di ricchezza e di bene con cui il Cristo sfida quasi l'interlocutore. Le parole del Maestro sono una vera e propria chiamata, l'invito a riconoscere il Bene assoluto. Solo Dio è buono (v. 18). Ora chi si è inginocchiato davanti al Nazareno è chiamato a riconoscere proprio in Lui tale assoluto, rinunciando ai beni e mettendosi alla sequela. Qui giunge, inaspettato, il rifiuto. Per comprenderlo, dobbiamo tornare al comando del sabato. Perché un popolo che viveva in un regime di sussistenza sospendeva il lavoro agricolo per un giorno alla settimana? Il riposo sabbatico era l'affermazione dell'Assoluto di Dio sul produrre, sul fare e sul lavorare. Mai queste realtà potevano divenire idoli. Erano sempre relative, relative a Dio e alla sua signoria. Il rischio dell'uomo religioso è certamente vivere il culto dimenticando il fratello che soffre la fame accanto alla sua porta.
Ma lo stesso uomo religioso corre un altro rischio: ridurre il Vangelo a un'etica, al rispetto dell'altro, alla generosità, alla filantropia o al volontariato, dimenticando che la stessa Legge pone al proprio principio l'assoluto di Dio. Dio è più importante del bene che facciamo o il cuore della fede è il bene che facciamo, senza che sappiamo compiere il salto della fede? L'uomo si adombra e se ne va triste. Tutto lo slancio è perduto. Le sue opere di bene sono un idolo, esattamente come le sue ricchezze. Le due realtà stanno quasi in parallelo: le opere buone, con cui identifico la mia religione, e le mie ricchezze. Entrambe non verranno lasciate mai. Mai, allora, Dio sarà veramente abbracciato. La sequela è fallita. Non a caso, i versetti che seguono sono tutti giocati attorno a verbi di movimento, paradossalmente. Per "entrare" nel Regno (vv. 23.24), ossia seguire Cristo, occorre praticare il comando del sabato nel suo spirito, relativizzando, quanto possediamo.
È un "passaggio attraverso" una strettoia, via obbligata per "entrare" (v. 25). Non è ancora un caso che alle parole generose di Pietro Gesù risponda presentando la ricchezza del Regno e la sua logica sovrabbondante. Dio moltiplica (v. 30), a patto che l'uomo sappia privarsi dei propri idoli. Ma nel doppio elenco fatto da Gesù c'è una omissione: non esiste il centuplo quanto a paternità. Dio solo è buono: nello sguardo amante del Figlio abbiamo conosciuto l'unico vero amore paterno, da cui viene tutta la nostra vita. La paternità di Dio è già centuplo su questa terra e nessuna garanzia fatta di ricchezze, anche solo morali, può essere anteposta alla paternità di Dio.
VITA PASTORALE N. 8/2009 (commento di Claudio Arletti,
presbitero della arcidiocesi di Modena-Nonantola)
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