V Domenica di Quaresima
Ger 31,31-34
Eb 5,7-9
Gv 12,20-33
CHI SEGUE CRISTO PASSA
DALLA MORTE ALLA VITA
È una domanda tanto intensa quanto opportuna quella che alcuni greci formulano nell'esordio di questa pagina giovannea: "Vogliamo vedere Gesù" (v. 21). Nel quarto vangelo non abbondano certo i pagani. Proprio a ridosso della "festa", a Gerusalemme (v. 20), quando ormai va compiendosi la vicenda terrena del Nazareno, l'interesse per la sua figura sfonda i confini della Giudea e raggiunge anche i non israeliti. È l'universalità della salvezza pasquale che di nuovo si affaccerà sulla scena attraverso il titulus crucis scritto in tre lingue.
Il procedimento che permette alla richiesta di giungere a Gesù è laborioso. I greci avvicinano un apostolo dal nome greco, non a caso. Non a caso Filippo cerca il sostegno dell'altro apostolo dal nome greco, Andrea, e solo i due insieme riferiscono la richiesta a Gesù. È difficile trovare nei vangeli sinottici una distanza tra domanda e risposta paragonabile a quella del quarto vangelo. Sempre, in Giovanni, la replica del Cristo sposta l'interiocutore su un piano incomparabilmente più alto e sublime. La risposta del v. 23 non fa eccezione. Tuttavia l'esito sembra positivo. Viene l'ora in cui il Figlio dell'Uomo sarà glorificato. Filippo, Andrea e i greci possono attendere una manifestazione possente e luminosa, stando alla teologia della Gloria, così come la conosciamo dal Primo Testamento: YHWH si manifesta in tutta la sua potenza, togliendo ogni dubbio sulla propria sovranità.
Con il v. 24 l'orizzonte però muta radicalmente. La gloria del Figlio di Dio assume una connotazione di invisibilità: Gesù descrive l'ora della glorificazione come l'ora del seppellimento e della morte. Il Figlio dell'Uomo deve "cadere nella terra" e morire. Le scene epiche dell'Esodo, del cammino nel deserto, della salita al Sinai lasciano il posto a un quadro brumoso e invernale: il tempo in cui il seme scompare dalla vista e inizia a svuotarsi di sé, morendo. Come potranno i greci vedere un Messia calato nel cuore della terra come seme? La metafora non ci è nuova: tutti i sinottici la utilizzano, ma Giovanni, da par suo, la riplasma potentemente. Il seme non è semplicemente il regno di Dio. Non è in gioco la sua piccolezza e, per converso, la grandezza dell'arbusto che ne deriva. Non è questione della sua crescita spontanea, di giorno e di notte, sia che il contadino dorma o vegli.
Il seme è Cristo. Solo attraverso la morte e la deposizione nella terra egli potrà portare frutto. Il desiderio dei greci non può compiersi per mezzo di una spettacolare teofania. Non è quella la via di Dio. Solo la primavera del Cristo, solo la risurrezione del seme potrà soddisfare il desiderio di chi vuole "vedere Gesù". Nel gergo giovanneo "vedere" e "credere" sono quasi sinonimi. Non si vede appieno se non nella fede che permette di scorgere la gloria di Dio nella carne del Verbo fatto uomo. E come una traiettoria che non permette allo sguardo di fermarsi a ciò che appare.
Per questo motivo nel quarto vangelo manca l'episodio della trasfigurazione. Tutto il ministero di Gesù fino all'ora della gloria è una manifestazione della divinità nell'umanità. Quanto è norma chiara per chi semina e raccoglie non è cosÌ evidente per la vita umana. L'uomo ama la propria esistenza. Non vuole morire. Da qui comprendiamo il sospiro di Cristo nel v. 27, chiamato non a torto "Getsemani giovanneo": l'anima di Gesù è turbata come lo era davanti al sepolcro di Lazzaro, come lo sarà davanti al tradimento di Giuda (il verbo greco è il medesimo). Esiste però un amore che si tramuta in odio. Esiste invece un disprezzo per la propria vita che arriva a custodirla in eterno (v. 25). Il turbamento di Cristo è quello che attende ogni persona. La morte non è un appuntamento evitabile. Tutto può perdersi. Ma l'amore non è un movimento dissimile da quello del morire.
Anche nell'amore l'uomo perde sé stesso, donandosi. Amore e morte sono egualmente totalizzanti. Non tollerano parzialità, perché vogliono tutto. Ciò nonostante l'uomo può morire e basta, perdersi giorno per giorno resistendo con tutte le forze al flusso della morte oppure può assecondare la perdita di sé tramutandola nel dono di sé. Se nel primo caso l'uomo "rimane solo" (v. 24) senza lasciare traccia di sé e senza fecondità, nel secondo caso tutto ciò che è perduto ritornerà a vivere. Ci si può spegnere e basta, nella chiusura e nell'egoismo. Si può invece amare consumando se stessi, come il chicco nella terra, preparando una straordinaria primavera. Ogni vita umana si trova prima o poi al bivio della Pasqua. Chi segue Cristo deve seguirlo e sarà, come servo, là dove è il suo Signore (v. 26). Cosa intende l'evangelista?
Non è necessario scegliere tra la croce e la gloria. Chi segue Cristo passa dall'una all'altra, ma solo dalla prima può giungere alla seconda. L'onore che il Padre riserva al discepolo è la partecipazione all'elevazione del Figlio (v. 32). La croce è innalzamento. La risurrezione è innalzamento. Il cuore nuovo, frutto della nuova alleanza di cui scrive Geremia (vv. 31-34), è il cuore che ama la propria esistenza disprezzandola e la custodisce perdendola in apparenza. È dono di Dio, non esito del nostro sforzo. Accogliamolo come salvezza.
VITA PASTORALE N. 2/2009 (commento di Claudio Arletti,
presbitero della arcidiocesi di Modena-Nonantola)
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