II Domenica di Quaresima (B)


ANNO B - 8 marzo 2009
II Domenica di Quaresima

Gn 22,1-2.9a. 10-13.15-18
Rm 8,31b-34
Mc 9,2-10

UN CHIARO ANTICIPO
DELLA GLORIA FUTURA

Come un bagliore inaspettato il racconto della trasfigurazione irradia la sua luce in una sezione piuttosto "opaca" del secondo vangelo, sezione in cui non mancano annunzi della passione e inviti a una difficile sequela. Si tratta di una sezione denominata dagli studiosi "Lungo la strada" per le frequenti menzioni del cammino verso Gerusalemme. Si estende dalla guarigione del cieco di Betsaida (Mc 8,22-26) alla guarigione del cieco Bartimeo (Mc 10,46-52). È il tratto evangelico in cui appaiono più evidenti i ritardi e le lacune dei dodici, incapaci di comprendere la via intrapresa dal Maestro verso la Pasqua. Vedremo che anche questa pagina non fa eccezione. Tuttavia essa irrompe come un chiaro anticipo della gloria della risurrezione.

Il vangelo di Marco, nella sua finale originale, non presentava le apparizioni del Risorto. Non abbiamo che questa pagina luminosa e oscura insieme per contemplare la gloria del Figlio di Dio. Essa riassume tutto il racconto marciano dal battesimo, in cui pure si udì la voce del Padre, fino al Getsemani in cui di nuovo i tre discepoli saranno colpiti dal sonno, incapaci di interpretare quanto sta accadendo al Cristo sofferente. La presenza di Elia e Mosè coinvolge poi tutta la Prima Alleanza: la Legge e i profeti sono convocati a testimoniare la gloria del "figlio amato" (v. 7). L'episodio si svolge il settimo giorno, il medesimo in cui Mosè entrò nella nube, come racconta Es 24, dopo che, per sei giorni, essa si era manifestata sul Sinai. È il giorno della gloria.
Anche il luogo richiama le grandi manifestazioni di Dio: è un monte alto ma ignoto. Al confine tra cielo e terra, Gesù conduce con sé i tre testimoni per eccellenza. Già nella risuscitazione della figlia di Giairo erano stati presenti. Lo saranno, come già accennato, anche nel Getsemani. Tra una ragazza che ritorna alla vita e il Maestro che si avvia alla morte si offre ai tre questa ulteriore esperienza pasquale. È come se la croce che già si profila all'orizzonte non fosse più il punto ultimo, ma fosse illuminata da uno splendore più forte del dolore e della morte. I tre vedono le vesti del Maestro assumere un biancore non umano.
Se in Luca e Matteo la "metamorfosi" del Cristo tocca anche i suoi connotati, in Marco è solo l'abito di Cristo a splendere in modo ultraterreno. Ritroveremo il medesimo colore, il bianco, nel giovanetto che al sepolcro, annuncerà alle donne la risurrezione (Mc 16,5). È il colore che sempre adorna il Cristo e i suoi fedeli nell'Apocalisse, colore di Dio e della vita nuova. Tutta la storia della salvezza è convocata. Ma Elia e Mosè non offrono solo il supporto di Legge e Profezia. Sono uomini di Dio, mistici, uomini che hanno conosciuto la parola divina ma anche il suo silenzio. Entrambi sono saliti all'Oreb ed entrambi hanno incontrato l'ineffabile. È la medesima esperienza che potrebbero fare i tre apostoli. Pietro riconosce un contatto di straordinaria bellezza e vorrebbe come imprigionarla, offrendo una tenda a ciascuno dei tre che dialogano. Ma come potrebbe servire una tenda a chi è puro spirito ed è già nell'eternità di Dio? Il ragionamento dell'apostolo è troppo terreno. Non sa entrare nella dimensione dello spirito.
Marco bolla le parole dell'apostolo come parole senza senso e lo giustifica in virtù del timore provato. Beatitudine e timore si fondono. La prima è il segno dell'incontro con Dio. Il secondo rivela la nostra distanza e piccolezza davanti al Mistero. Di questo furono testimoni Mosè ed Elia. Essi conobbero il Dio che è luce. Ma anche il Dio che è tenebra. Il brano ci conduce proprio all'oscurità di una nube (v. 7). Se prima il testo abbondava di dettagli visivi, ora si ode soltanto una voce. La voce del cielo rimanda alla voce della terra, dove è il Figlio amato.
Nel comando offerto c'è tutto: «Ascoltatelo». Solo la parola del Figlio potrà illuminare la tenebra del Getsemani e quella del Golgota. Non è possibile vedere senza ascoltare. Non si può comprendere se non accettiamo una parola che non ci appartiene e che ci è donata. In essa converge tutto l'Antico Testamento. La durezza di cuore dei dodici impedirà loro di intuire quanta gloria e quanta luce si celi nell'umiliazione del Figlio di Dio. La nube lascia il posto alla solitudine di Cristo, che anticipa quella del Getsemani e quella della croce.

I dodici abbandoneranno Gesù, non avendo trattenuto nel cuore la parola che consente di vedere la gloria nascosta. Non v'è Quaresima senza Pasqua. Non v'è sofferenza senza consolazione. Non c'è fede che non riceva il tocco della trasfigurazione. Ma non possiamo fermare il bell'istante che condividiamo con Cristo e con la Chiesa senza spalancare l'orecchio alla parola che mostra tutto il cammino che manca e che infonde la forza per percorrerlo. Non c'è monte della trasfigurazione senza Calvario. L'ingiunzione che chiude il passo evangelico ci rimanda ancora alla risurrezione. I tre potranno riconoscere l'esperienza che hanno vissuto davanti alla tomba vuota. Un seme è stato gettato nel loro cuore. Maturerà nel silenzio delle loro domande e perplessità. Matura anche nel nostro silenzio se fecondato dall'ascolto del Figlio di Dio. La risurrezione di Gesù, anticipo e garanzia della nostra, è la luce su cui fissare lo sguardo.

VITA PASTORALE N. 2/2009 (commento di Claudio Arletti,
presbitero della arcidiocesi di Modena-Nonantola)


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