I Domenica di Avvento
Is 63, 16b-17.19b; 64, 2-7
1 Cor 1, 3-9
Mc 13, 33-37
MAI SMETTIAMO DI ATTENDERE
COLUI CHE SQUARCERÀ I CIELI
Il toccante testo di Isaia che apre questa prima liturgia d'Avvento contiene una delle invocazioni più accoratedell'Antico Testamento, entrata a buon diritto nei motivi tipici di questo tempo di attesa: «Se tu squarciassi i cieli e scendessi!» (Is 63,19). L'immagine di un cielo chiuso che mai permette alla preghiera dell'uomo di raggiungere Dio né alla luce celeste di rischiarare la terra rende plasticamente e tangibilmente la totale separazione tra la creatura e il Creatore, quale dovette avvertire Israele nei giorni successivi al rimpatrio dall'esilio. E proprio in questa fase che scrive il cosiddetto Trito-lsaia. Un cielo chiuso è come un cielo vuoto. Non importa chi potrebbe esserci al di là delle nubi.
Al grido di Israele risponde magnificamente il verbo centrale di questa prima domenica di Avvento: «Vegliate» (Mc 13,33). Esso, nella forza originale del vocabolo greco, suggerisce ai nostri occhi una scena carica di suggestione, vicina certamente al tempo e alla società in cui Gesù viveva: un uomo, di notte, in uno spazio aperto, che vigila sotto le stelle. Se un uomo rinuncia al riposo della notte, ciò accade solitamente per scongiurare un pericolo o per assolvere al proprio lavoro. Oppure, sta aspettando qualcuno o qualcosa. E il senso dell'imperativo ribadito da Gesù: il cielo chiuso si aprirà. Dio, che nell'incarnazione del Figlio ha già squarciato i cieli, di nuovo romperà la loro uniformità compatta per scendere verso di noi.
In questa prospettiva è semplice comprendere la frequenza con cui i credenti, in una speciale circostanza, si riuniscono per "vegliare", per una "veglia di preghiera". Quando la nostra attesa sconfina nella notte, vegliare diventa il modo per orientare verso l'Atteso il ritmo stesso del cosmo, l'avvicendarsi del tempo. Ciò che è naturale da compiere durante il giomo, diventa lo stile della notte. Proprio nel momento in cui l'universo riposa e il mondo si "spegne", chi attende rende la notte il luogo da cui lanciare un messaggio: ogni tempo è importante per chi vuole aspettare senza perdere l'istante del compimento. Per questo non può essere il tempo a condizionare l'uomo, ma l'uomo può e deve arrivare a condizionare il tempo che scorre.
L'uomo che veglia è un uomo che non si lascia assorbire dalla notte, che non diventa un tutt'uno con la tenebra, che fende l'oscurità con la forza penetrante del suo sguardo. C'è forse una immagine più bella per definire noi stessi, per dire che cosa è un cristiano? Il credente è uomo che veglia le stelle e aspetta colui che tutta la storia chiama "sole dell'umanità" e "alba della nostra salvezza".
Noi non sappiamo l'ora in cui Cristo compirà la storia, non sappiamo l'ora in cui Cristo chiuderà la nostra vita. Vegliare con il cuore significa non dimenticare mai che viviamo la notte dell'assenza e dell'attesa.
Ci intenerisce l'esempio di tante madri che, pur riposando, vivono un sonno che non è mai totale, perché è anche veglia al proprio bambino, per accorrere appena inizia a piangere. Vegliare significa vivere con il cuore proteso. L'attesa non rappresenta forse già una continua venuta di Gesù Cristo? Chi vive ogni istante come un passo in più compiuto verso la fine dei tempi, è sempre con colui che attende. È già con Cristo. I nostri fratelli monaci da sempre esprimono con il loro vegliare notturno anche l'attesa di tutto il creato e del cosmo. Noi sentiamo che tutta la natura e la storia attendono. Attendono un compimento, una redenzione, una liberazione.
Anche il nostro tempo, come ogni tempo, ha le sue notti. E ogni notte è vinta solo da chi vi si sottrae nella vigilanza. Il nostro tempo anzitutto vive la notte della verità, per cui tutto è vero e, allo stesso tempo, tutto è falso, una notte in cui ognuno baratta e vende la sua opinione e il proprio interesse per certezze granitiche. Il nostro tempo vive poi la notte del cuore e dei sentimenti: la crisi che attraversa le nostre famiglie lo testimonia, la fatica della fedeltà coniugale lo testimonia, i gelidi silenzi che calano nelle nostre tavole lo testimoniano. Il nostro tempo vive infine anche la notte dei valori, offuscati da sostanze che uccidono, confusi con il proprio piacere, ordinati secondo il proprio arbitrio. È la notte della vita, quando l'uomo perde Cristo e l'amore del Padre.
Vegliare significa reagire operosamente come ci ricordava il vangelo di domenica scorsa. La storia è attesa, ma non è una sala d'aspetto in cui incrociare le braccia. La nostra operosità non nasce dalla convinzione di abbreviare la notte, ma dalla speranza certa che essa ha una fine. La sua fine coincide con il fine della nostra operosità.
Anche al di là delle opere benefiche, possiamo vedere senza fatica, in una delle più antiche abitudini trasmesse dalla nostra fede, la preghiera della sera, l'espressione della volontà di vegliare, anche solo simbolicamente. Per tanti credenti è un gesto compiuto con costanza, a volte già nel buio della propria camera, quasi l'ultimo atto prima del sonno. Mentre fuori il mondo dorme, il credente ritarda il proprio sonno anche solo di pochissimi minuti per consacrare al Signore quell'istante, quella frazione della notte. L'ultima preghiera della giornata, piccola veglia gravida di significati, risponde all'intuizione di orientare il riposo, chiudendo gli occhi ma non assopendo il cuore. Mai smettiamo di attendere Colui che un giorno squarcerà i cieli, ponendo fine a ogni notte, come nella Gerusalemme celeste: «Non vi sarà ivi più notte» (Ap 21,25).
VITA PASTORALE N. 10/2008 (commento di Caudio Arletti,
presbitero della arcidiocesi di Modena-Nonantola)
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